La prossima volta che, a casa, squillerà il telefono, il mio pensiero volerà al Garante della Privacy. Sarà vero quello che hanno detto i giornali (domanda retorica: è chiaro che i giornali - specialmente questo - dicono sempre la verità), sarà vero cioè che la mia intimità casalinga non verrà più disturbata dalle telefonate “mute”?
È notizia di ieri, infatti, che il Garante ha imposto alle società di telemarket qualche regola in più sulle comunicazioni commerciali. In particolare, basta con le telefonate effettuate da centralini “automatici” e che lasciano chi risponde in sospeso, in attesa di un interlocutore: esse generano stress e fanno perdere tempo. Basta, in realtà, si fa per dire: la regola impone che su 100 telefonate, non più di tre possano essere “mute”.
Personalmente, quando ricevo una di queste chiamate - non solo quelle mute ma anche le altre - la mia reazione è sempre la stessa. Siccome già allo squillo intuisco trattarsi di pubblicità, il mio “pronto?” è subito minaccioso: all’introduzione dell’operatore (più spesso, operatrice) rispondo con un borbottio scontroso; poi, metto giù. Dopo di che mi allontano sentendomi in colpa.
Mi sento in colpa perché capisco che chi ha chiamato sta facendo un lavoro e, quasi certamente, lo sta facendo perché non ha trovato niente di meglio. Mi sento in colpa perché, oltre a me, altre decine e decine di persone avranno “messo giù” il telefono all’operatrice e sentirsi respingere, anche se il rifiuto non è personale ed è più una forma di auto-difesa che di ripicca, non fa mai bene alla psiche. Mi sento in colpa anche perché vorrei non fosse necessario che qualcuno, per tirare a campare, di mestiere debba fare quello che rompe le scatole al prossimo . Mi sento in colpa infine perché non oso mai rispondere: «Guardi, non compro niente perché se dovessi comprare tutto sarei rovinato. Però, perché una sera non viene a cena da noi?»
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