L'ultima illusione

Oggi che i compleanni degli amici te li ricorda il telefonino, la memoria - e la nostalgia, sua malinconica compagna - è diventata cosa accessibile. C’era un tempo in cui ricordare - per celebrare, studiare, scoprire e riscoprire - richiedeva sforzo: bisognava avventurarsi in cantina, o in solaio, interrogare testimoni che, a volte, non condividevano il nostro entusiasmo per le reminiscenze, verificare date, controllare circostanze incerte.

Tutto superato. L’enorme archivio che, proprio come una nuvola elettronica, segue i nostri spostamenti più o meno “fantozziani”, è a disposizione per qualunque capriccio: la Rete prima ci ricorda che c’è un anniversario in arrivo e poi ci aiuta a riempirlo di citazioni, immagini, suoni, elenchi, firme, cartoline e souvenir. Non che ci sia qualcosa di male: l’unico problema è che una memoria così diventa “facile” e di conseguenza soggetta all’inflazione. Ecco perché, nel continuo fiorire di “possibili” ricordi, a ognuno di noi spetta il compito di coltivare quelli che, per sentimento e affinità, ritiene più vicini.

A me è capitato ieri, quando dal solito, rutilante girotondo elettronico è uscito il cinquantesimo anniversario dello sbarco dei Beatles in America: questa volta, dal piano “storico” dell’evento mi sono sentito trascinato sul personale. Non che io potessi essere presente al primo concerto americano dei Beatles - a 11 mesi, attraversare l’Oceano sarebbe stato troppo ardito - ma perché della musica di quel gruppo, oggi devo riconoscerlo, ho finito per fare negli anni la colonna sonora della mia vita. Non che non abbia apprezzato altra musica e altri artisti ma, fatti i conti, i Beatles restano per me la pietra filosofale della musica pop, ovvero l’esempio di come si potesse essere leggeri e durevoli nello stesso tempo, di come la creatività potesse venire esercitata con libertà e rispetto e di come levità e humour fossero pregi da coltivare con assoluta serietà. L’anniversario del loro arrivo in America - e quindi del loro diventare “mondiali” - per me significa tutto questo: l’ultima illusione della vita che ancora non stona.

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