Il fatto che, per la prima volta nel 2016, una donna abbia conquistato un posto di rilievo nella corsa per la presidenza degli Stati Uniti deve essere letto - rispondete pure al sondaggio nella vostra testa - come una conquista dell’emancipazione femminile o come una sconfitta del genere umano che solo dopo millenni ha realizzato come le due parti di se stesso - uomo e donna - siano equivalenti e, semmai, la seconda andrebbe premiata anche soltanto per la pazienza? Io propendo, si è forse capito, per l’ipotesi numero due, perché mi sembra davvero incredibile come, sotto sotto, l’umanità tutta - comprese anche molte donne - viva con inconscia palpitazione la prospettiva che a occupare un posto di grande importanza politica e militare ci sia una persona di sesso femminile.
È questo uno dei tanti pregiudizi che, a nostra insaputa o quasi, ci muovono: il presidente degli Stati Uniti deve essere uomo e lo stesso requisito, in fondo, lo richiediamo all’arbitro della partita di calcio e al pilota dell’aereo che ci porterà in vacanza. Quest’ultimo, lo ha dimostrato un sondaggio, oltre che uomo deve essere anche bianco, altrimenti i passeggeri, inclusi quelle di altre razze, si sentono a disagio.
Qualcuno ha fatto notare che una donna sulla soglia della presidenza è una novità storica solo per gli Stati Uniti: basta fare i nomi di Angela Merkel, Margaret Thatcher, Indira Gandhi, Golda Meir, Dilma Rousseff e Benazir Bhutto, e l’elenco potrebbe continuare. Vero, ma, riconosciamolo, quello di presidente degli Stati Uniti è nella percezione di tutti il ruolo di responsabilità per eccellenza, centrale a questa epoca e decisivo per l’Impero a guida americana che, seppur declinante, ancora ci comanda e ci condiziona.
Forza Hillary Clinton, allora, e speriamo bene. Sarà significativo, però, che ci siamo ricordati di citare il suo nome solo all’ultima riga?
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