L’ultimo abbraccio

Curiosando nel sito “Big Think” - non di rado ospita articoli illuminanti -, mi sono imbattuto ieri in un appello agli studenti: nello specifico, liceali e universitari. L’autore, Peter Diamandis, fondatore e presidente della X Prize Foundation, si rivolgeva ai giovani esortandoli, in sostanza, a «costruire la loro stessa fortuna». Come? Trasformando le loro passioni in un lavoro. Secondo Diamandis occorre «bussare alla porta dell’anima e chiedersi che cosa si vuole fare su questo pianeta e quindi farlo con tutta la passione possibile». Da queste premesse, tutto può diventare un lavoro: «Giocattoli, videogiochi, voli spaziali».

Appello di Diamandis incluso, credo di aver sentito questo discorso, in diverse varianti, almeno un milione di volte. Il che, di per sé, non lo rende meno valido, anzi. Probabilmente rimane la cosa più giusta da dire a giovani che ancora stanno cercando la loro strada ma, detto tra noi, senza che nessuno ci ascolti, in coscienza: le cose stanno proprio così? Personalmente, da giovane ho avviato una carriera professionale sulla base di una passione: quella per lo scrivere. Lieto di averlo fatto ma, in tutta onestà, potrei affermare che questo mi ha risparmiato delusioni, seccature, problemi, stagnazioni e perfino, di tanto in tanto, la gelida carezza della depressione?

Direi di no e pur senza voler del tutto smentire la ricetta («fate un lavoro della vostra passione»), varrebbe la pena aggiungere una postilla: «Non necessariamente sarete sempre felici, ma difficilmente arriverete a provare assoluto disgusto per quello che fate».

Credo potrebbe bastare anche se, volendo andare fino in fondo e sciogliere gli ultimi, più profondi grumi di onestà, bisognerebbe ammettere che, pur frequentata quotidianamente, la passione rimane sempre illusoria nella sua essenza e anche gli spiriti più ottimisti e sfrontati, come quello del signor Diamandis per esempio, arrivano prima o poi all’ineludibile sfida: quella di abbracciare la propria mediocrità.

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