Leggo sul Corriere della Sera che, a Milano, a apre “il primo” caffè a tempo. Il locale, situato a Porta Romana, “vende” il tempo di permanenza: studenti e professionisti che intendono sostare per una bevanda o per usare la rete wi-fi si fermano per un periodo prefissato (e monetizzato).
Spero di essere stato chiaro nella spiegazione della notizia perché il mio interesse nella medesima - con tante scuse al locale di Porta Romana - è praticamente zero e quindi non intendo dilungarmi oltre.
Quel che mi interessa, e molto, è l’uso che il Corriere della Sera fa dell’espressione “il primo”. Se ci fate caso, i giornali amano molto le “prime cose”, probabilmente perché, in questo modo, danno l’impressione di essere all’avanguardia, in sintonia con i tempi e puntualissimi nell’intercettare le novità sociali. Figuriamoci.
Certo, sarebbe curioso se i giornali si impegnassero nell’inseguire le “seconde cose” - secondi ristoranti, seconde mostre, secondi esercizi commerciali di originale natura -, ma bisogna anche dire che, per il significato che ha e la stampa applica, il termine “primo” implica l’esistenza di un “secondo”, se non anche di un “terzo” o un “quarto”, il che, in effetti, non è sempre il caso.
Questo è il segreto (?) giornalistico del “primo”: alludere al fatto che non solo ci sarà un “secondo” ma, con ogni probabilità, avremo “una lunga serie”. Non ci sarebbe né merito né interesse, per un media, nel segnalare un’iniziativa isolata, un tentativo solitario, basato su originalità e individualismo: no, il “primo” merita di essere tale perché lo si promuove ad avanguardia, ovvero a idea che apre una moda, un filone, addirittura un “trend”. Quanto c’è di autentico, scientifico o quantomeno di statisticamente attendibile nell’uso di questa espressione non è dato saperlo. O se proprio ci tenete, sarò io il “primo” a dirvelo: niente. E adesso fatevi un buon caffè, possibilmente nell’ultimo bar della città.
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