Appena qualche giorno fa - domenica 30 aprile, per la precisione - mi trovavo a riferire di uno studio secondo il quale la maggior parte delle persone, di fronte alla possibilità di ricevere una cattiva notizia, si chiude a riccio e preferisce la sospensione del "non sapere" al rischio del "sapere che qualcosa non va". Si vede però che i ricercatori non sono persone normali, o comunque non appartengono alla "maggioranza", perché loro le cose vogliono saperle eccome: non si chiamerebbero, altrimenti, "ricercatori".
Ecco dunque che qualcuno di loro ha spostato l'indagine un passo avanti: supponiamo che, volenti o, più spesso, nolenti, qualcuno la notizia stia per darcela, quale sarà il percorso emotivo che seguiremo? In altre parole: che cosa proveremo nei momenti precedenti la consegna della summenzionata notizia?
Senza ricorrere alla ricerca, immaginiamo di poter incasellare tali emozioni nei concetti di "ansia" e "trepidazione", ma gli studiosi hanno fatto di più, mappando la successione temporale in cui queste sensazioni di manifestano, con maggiore o minore intensità, durante l'attesa della notizia.
La scoperta più interessante è che praticamente tutti noi, nell'istante che precede l'apprendimento dell'informazione (per esempio l'esito di un esame medico o scolastico), precipitiamo nel pessimismo. Questo vale anche per chi mantiene d'abitudine un disinvolto atteggiamento ottimista. Anche costoro, un istante prima di saltare nel vuoto, ovvero dal "non sapere" al "sapere", cedono e pensano al peggio. Credo che gli evoluzionisti potrebbero dire qualcosa circa questo scudo che, in mancanza di meglio, eleviamo a nostra ultima protezione: comunque vada, meglio che ci si prepari ad affrontare lo scenario peggiore. In esso c'è incisa tutta la condizione umana che, nell'intimo, accoglie le buone notizie come un regalo e considera quelle cattive ultimamente inevitabili.
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