L’uscita di casa

Oggi si festeggia il lavoro. Con tutto il rispetto per la ricorrenza e le sue serissime, addirittura tragiche, origini, la circostanza, al momento, fa un po’ ridere. È come un compleanno senza il festeggiato, un matrimonio senza la sposa, un comizio senza Berlusconi: non c’è ragione di mettersi in ghingheri per andare a una cerimonia monca, inutile o, nel migliore dei casi, puramente simbolica.

Naturalmente, non è proprio così: il lavoro resta la colonna portante della società anche se, nel tempo, abbiamo fatto di tutto per mortificarne la dignità, renderne incerta la presenza e sempre meno appetibile il raggiungimento.

Secondo me il lavoro raggiunge la sua accezione più importante e più solenne nell’idea che ne hanno i bambini. Soprattutto, che i bambini hanno del lavoro dei propri genitori. L’uscita di casa, al mattino, di un genitore che abbia rispetto di sé e della sua occupazione, agli occhi di un bambino rappresenta - o forse dovrei dire rappresentava - una disinvolta esibizione di potere e di controllo. Parole dalle quali, ora, sentiamo di doverci guardare ma che, da piccoli, erano garanzie di una benevola sicurezza: papà e mamma tenevano a bada il mondo non solo perché evitasse di offenderci ma affinché sempre ci rivolgesse sguardi amorevoli e generosi. Oggi che sappiamo con esattezza cosa affrontavano quando uscivano di casa, quanto era ben più umile il loro impegno quotidiano dall’idea che ne avevamo noi ragazzini, ai quali una scrivania ordinata o un’officina con gli attrezzi allineati sul banco sembravano l’essenza e la conseguenza, non la premessa, del lavoro, quei momenti diventano ancora più preziosi.

Non so che cosa pensino i ragazzi di oggi quando vedono i “grandi” andare al lavoro o, meglio, quando li sanno disoccupati, cassaintegrati, precari o Cococo. Mi sembra difficile possano riceverne la stessa impressione di certezza e responsabilità. Spero possano conoscerla, o ritrovarla, prima che sia troppo tardi.

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