“Da me? Cosa dice? Cosa vuole che le spieghi?” Sconcertato, accennò fuori, con la mano aperta. Poi ebbe l’aria di convincersi: “È fuori di sé, capisco. È ancora così giovane. E anche a non esserlo più... L’ho visto, poco fa, sul ponte che guardava giù. E avrei voluto impedirglielo, tirarlo via. Ma come si fa? Guardo sempre giù anch’io, ormai, non posso farne a meno, tutte le volte che passo”. Colse uno sguardo smarrito di Raffaele. “Povero bambino, sembra impossibile, vero? Si ricorda l’altra volta, pochi giorni fa, è stato proprio lei a salvarlo, a sgridare quegli altri che volevano fare quel maledetto giuoco. Chissà cosa gli è preso, dopo? Glielo hanno raccontato, no? Non c’era nessuno a incitarlo, questa volta. È tornato da solo, ha voluto provare, chissà cosa gli è venuto in mente... Povero bambino. È stato un attimo, per fortuna. Non ha nemmeno gridato (...)”
Nel silenzio che seguì si sentirono rumori al piano superiore e l’oste, che vide Raffaele alzare gli occhi pieni di lacrime, guardò anche lui il soffitto, scrollò le spalle e accennò un sorriso di scusa:
“Dunque” disse “penso che lei parta. Non dico là, ma anche da me, vede, non ci sarebbe posto, se anche volesse fermarsi. Ma tornerà, vero? Bisognerà pure che torni, per i suoi impegni. Una volta o l’altra... Non dica di no, non si può essere mai certi, non si può essere mai certi di niente”.
(Sergio Ferrero, “Il giuoco sul ponte”, 1995)
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