Un fatto, nel progredire della tecnologia informatica, rimane pressoché indiscusso: i tecnici possono bruciarsi gli occhi scrivendo righe sopra righe nei linguaggi di programmazione, ma il software che muove il cervello umano rimane per loro inaccessibile.
Mi rendo conto che l’affermazione di cui sopra è troppo drastica: computer, telefonini e ogni altro oggetto informatico certamente condizionano il nostro modo di ragionare, anche se non secondo schemi prevedibili. Ciò detto, ci sono momenti in cui la testa si chiude a riccio davanti alle suadenti offerte della tecnologia e oppone una resistenza talmente ostinata che, con un poco di ottimismo, potremmo sbandierarla come indipendenza di giudizio.
La resistenza più dura da abbattere, rivela un’indagine, è quella a parlare con il telefono. Non “attraverso” il telefono, ma “con” il telefono. Questa ritrosia spiega la ragione per cui gli “assistenti personali” - Siri per Apple , Ok Google e Cortana per Microsoft - riscuotono un successo relativamente modesto.
Bisogna fare una precisazione: non è che ci vergogniamo a parlare con il telefonino, diciamo che ci non ci piace farlo in pubblico. La ricerca dice che il 98 per cento dei possessori di smartphone ha usato l’“assistente” una volta o due, ma che pochissimi lo fanno per abitudine e mai alla presenza di estranei. Scatta, credo, il doppio imbarazzo di parlare con una macchina (soggezione superabile e superata solo davanti ai distributori di caffè che rubano le monete) e di chiedere indicazioni al prossimo (un handicap, quest’ultimo, specialmente maschile: c’è gente da anni vaga nella periferia di Lima rifiutandosi di interpellare vigili e passanti).
Ritrosia irrazionale - perché negarsi i benefici di un supporto tecnologico? - ma umanissima e simpatica. E poi parliamo già troppo e troppo spesso: come finiremmo se l’impulso alla chiacchiera dovesse investire anche gli oggetti inanimati?
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