Non mi piace quando si battono le mani alle casse da morto ma, fossi stato ieri ai funerali di Enzo Jannacci, forse un applauso sarebbe scappato anche a me.
Più probabilmente, mi sarebbe venuto il magone: un corto circuito sentimentale all’idea che, con il cantautore, il genio, il pazzo e il poeta, veniva seppellita anche un’idea di Lombardia che mi piaceva molto.
Diciamolo pure: l’unica idea di Lombardia che mi sia mai piaciuta, perché questa terra, generosa e a modo suo umanissima, ha un carattere non sempre facile da comprendere, una lingua predisposta al sarcasmo, certi lunghi silenzi che non aiutano a vivere e una luce che, specie al mattino e verso sera, finisce per mettere addosso una soffocante tristezza.
Jannacci, nelle sue canzoni ma non solo, prendeva questi umori e questi suoni, mescolava le pause con le macchie di sole e di nebbia, per tradurre il tutto in caricature buffe e angolose, stralunate e malinconiche.
Non so se sia corretto da un punto di vista letterario e nemmeno saprei argomentare con precisione le ragioni di tale concordanza, ma la Milano di Enzo Jannacci mi faceva sempre pensare a quella di Giuseppe Marotta, quella dei racconti di "Mal di galleria". Un serraglio di bellimbusti da Naviglio, di matte da ballatoio, ladri di portafogli, padroni della fabbrichetta e di baristi dal ciglio pesante che servono avventori dal ghigno amaro.
Marotta, come Jannacci, da questa umanità reticente, sospettosa, nascosta dietro uno sbarramento di ludibrio come soldataglia in trincea, riusciva a trarre una certa filosofia, una saggezza spoglia ma inattaccabile e, addirittura, a evocare il riverbero di passioni sorprendentemente intense.
Marotta è morto cinquant’anni fa, Jannacci appena da pochi giorni. Ho paura che adesso, senza più nessuno a ricordare loro che possono diventare persone straordinarie, i lombardi finiranno per essere un po’ troppo se stessi.
Più probabilmente, mi sarebbe venuto il magone: un corto circuito sentimentale all’idea che, con il cantautore, il genio, il pazzo e il poeta, veniva seppellita anche un’idea di Lombardia che mi piaceva molto.
Diciamolo pure: l’unica idea di Lombardia che mi sia mai piaciuta, perché questa terra, generosa e a modo suo umanissima, ha un carattere non sempre facile da comprendere, una lingua predisposta al sarcasmo, certi lunghi silenzi che non aiutano a vivere e una luce che, specie al mattino e verso sera, finisce per mettere addosso una soffocante tristezza.
Jannacci, nelle sue canzoni ma non solo, prendeva questi umori e questi suoni, mescolava le pause con le macchie di sole e di nebbia, per tradurre il tutto in caricature buffe e angolose, stralunate e malinconiche.
Non so se sia corretto da un punto di vista letterario e nemmeno saprei argomentare con precisione le ragioni di tale concordanza, ma la Milano di Enzo Jannacci mi faceva sempre pensare a quella di Giuseppe Marotta, quella dei racconti di "Mal di galleria". Un serraglio di bellimbusti da Naviglio, di matte da ballatoio, ladri di portafogli, padroni della fabbrichetta e di baristi dal ciglio pesante che servono avventori dal ghigno amaro.
Marotta, come Jannacci, da questa umanità reticente, sospettosa, nascosta dietro uno sbarramento di ludibrio come soldataglia in trincea, riusciva a trarre una certa filosofia, una saggezza spoglia ma inattaccabile e, addirittura, a evocare il riverbero di passioni sorprendentemente intense.
Marotta è morto cinquant’anni fa, Jannacci appena da pochi giorni. Ho paura che adesso, senza più nessuno a ricordare loro che possono diventare persone straordinarie, i lombardi finiranno per essere un po’ troppo se stessi.
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