se c’è una cosa di moda oggi, questa è l’ottimismo. Non perché ci siano ragioni oggettive per essere ottimisti (neanche del tutto pessimisti, però): la ragione di questo entusiasmo per l’ottimismo è che esso, in qualità di concetto astratto, può essere usato come talismano. C’è infatti la convinzione che l’ottimismo non sia una semplice inclinazione a inquadrare ciò che accade in una luce positiva: esso, si crede, potrebbe anche essere tradotto in un atteggiamento positivo nei confronti degli impegni che ci attendono e condizionarli efficacemente. In altre parole: essere ottimisti circa un progetto, un’impresa, un esame o un rapporto sentimentale agli inizi, contribuirebbe in maniera decisiva all’esito positivo dei medesimi.
Ma sarà vero? I ricercatori, che mai sono disposti a permettere all’umanità di crogiolarsi nelle sue credenze, vere o false che siano, hanno cercato di stabilire scientificamente se l’ottimismo, in effetti, funziona e, se sì, quanto. Per farlo, naturalmente, hanno dovuto tormentare qualcuno: nella fattispecie un folto gruppo di studenti che si è ritrovato sottoposto a test di vario genere - di matematica, in modo particolare - dopo che i ricercatori stessi avevano fatto in modo di presentare loro gli impegni sotto una luce incoraggiante o, al contrario, problematica.
Risultato? In estrema sintesi, questo: l’ottimismo male non fa. Sarebbe a dire: nulla lascia pensare che possa servire a qualcosa davanti a un impegno concreto, ma nulla neppure fa pensare il contrario. Nella loro conclusione, i ricercatori suggeriscono che «è meglio non affidarsi all’ottimismo a fronte di prove impegnative: prepararsi bene garantisce la riuscita meglio di ogni altra cosa».
Lasciati i ricercatori a bearsi della loro ovvietà, noi rimaniamo nel dilemma: che cosa vuol dire «non fa male». Che è ininfluente? Che è blandamente positivo? Oppure blandamente negativo? La risposta, temo, dipenderà da quanto siete ottimisti e quanto pessimisti.
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