Marty

Marty

La morte dell’attore Ernest Borgnine a 95 anni non resterà scritta negli annali della cultura popolare come quella, 50 anni fa, della diva Marilyn Monroe e tuttavia, come spesso accade  per i volti del cinema, lo stesso si avverte l’urgenza di dire qualcosa, aggiungere un tributo che abbia l’intonazione di un ringraziamento.

Nel caso di Borgnine trovo che questo sia particolarmente vero, almeno per me, e la ragione è semplice: egli è l’attore che diede vita al personaggio di Marty nell’omonimo film del 1955. Una parte che consegnò a Borgnine la gratificazione del premio Oscar e al pubblico una riflessione che meriterebbe di essere aggiornata.

Il film che, per quel che può valere, resta uno dei miei preferiti, racconta le vicende di un macellaio italo-americano il cui buon cuore è sepolto in un corpaccio poco attraente. Una combinazione che lo rende molto a disagio con la gente in generale e le donne in particolare.

Nella mia esperienza di spettatore, "Marty" è stato il primo film che abbia osato narrare una vicenda dal punto di vista di un vero timido. Forse - anzi: certamente - per identificazione, Marty mi è sempre sembrato il più grande eroe del cinema. Di gran lunga superiore agli altri, ovvero gli eroi tradizionali, agevolati nell’imporsi dall’aspetto gradevole, dalle abilità fisiche e dalla ferrea fiducia interiore. Niente di tutto questo sorreggeva il povero Marty, il cui peggior nemico lo trovava in se stesso e nel subdolo convincimento, instillatogli dagli amici, che destino migliore non avrebbe mai potuto conoscere se non quello di annullarsi nella mediocrità. Mai avevo trovato in un film un allarme tanto pressante e concreto, mai il dilemma morale di una storia mi era sembrato così pungente e decisivo. Al punto che, lo confesso, per me "Marty" non è ancora finito.

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