Maxirotolo

La scena è semplice: ci siamo io e un sacchetto della spesa. L’azione, poi, banale: di ritorno dal supermercato, svuoto il sacchetto. Qualche barattolo dopo accade il Fatto Saliente, il detonatore della storia, quello che nel gergo degli sceneggiatori si chiamerebbe "inciting incident".

La mia mano estrae una confezione in plastica, piuttosto soffice, che presto si rivela contenere un rotolo di carta da cucina. Non un rotolo, mi correggo, perché la confezione riporta chiaramente la scritta "maxirotolo". Sembra incredibile, ma a questo punto la mia testa non può più fermarsi:

«Maxirotolo» mi chiedo, «ma perché "maxi"? Che cosa si cerca di farmi intendere con questo prefissoide? Certo che il rotolo in questione è "più grande". Ma più grande di che cosa? Come se esistesse un rotolo-standard, un rotolo di riferimento, simile al metro di platino in quell’istituto di Parigi, in base al quale definire maxirotoli, minirotoli e normorotoli. O forse mi si vuole far notare la convenienza del presente rotolo, piuttosto grosso in effetti, rispetto al altri rotoli più smilzi. Ma convenienza ci sarebbe se il cosiddetto "maxirotolo" costasse come lo "scarsorotolo", o di meno, ma, per quanto possa ricordare, non è così: il rotolo più grosso costa di più e allora, per stabilire da che parte sta la convenienza, bisognerebbe sapere quanto viene, al metro, la carta da cucina in un caso e nell’altro. Ma questo non lo dicono. Scommetto che nella finanza facevano proprio così: "Guardi, abbiamo qui un maxirotolo di fondi d’investimento, prenda questi che le conviene". E così facciamo anche noi: andiamo avanti stordendoci l’un altro a colpi di superlativi, tanto non ci sono termini di paragone. Ci credo poi che il mondo va a rotoli. Anzi, a maxirotoli».

È il mio stesso gesto a interrompermi: sistemo la confezione nell’armadio e non ci penso più.

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