Io credo che, in una forma o nell’altra, c’è un pensiero che, prima o poi, ha attraversato le teste di tutti. Abbiamo appena ritirato i risultati dell’esame del sangue e la busta è tra le nostre mani, ancora chiusa. Lo scenario oggi potrebbe essere leggermente differente: l’esito del test è online e il file è lì, pronto, basterebbe cliccarlo due volte perché si apra. Due scenari, stessa situazione: ancora non sappiamo, vorremmo sapere ma, forse, più di tutto vorremmo non sapere.
Finiamo per aprire la busta o cliccare il file: il sangue ce lo siamo fatto cavare, abbiamo pagato il ticket, sarebbe sciocco buttar via tutto. Eppure, per un momento, consideriamo quanto sarebbe confortevole, in teoria, rifugiarci sotto la coperta dell’ignoranza.
La psicologia dello scegliere di non sapere anche quando l’informazione - potenzialmente negativa - è disponibile, risulta oggi ben illustrata in uno studio condotto in collaborazione tra Gerd Gigerenzer, direttore dell’Istituto Max Planck per le Risorse umane e Rocio Garcia-Retamero dell’Università di Grenada.
Risultato: moltissimi tra noi preferiscono non sapere. La percentuale sfiora il 90 per cento quando l’informazione che viene prospettata ha l’aria di concernere un evento negativo, ma rimane alta anche quando si tratta di rivelazioni potenzialmente positive. Lo studio suggerisce che l’idea di dover rimpiangere la conoscenza di un fatto ci è quasi intollerabile. Un’informazione, dopo tutto, non si può “disapprendere” dopo averla appresa: meglio dunque rimanere un passo indietro, nella zona dove qualcosa “ancora non si è saputo” il che, per una distorsione del pensiero, equivale a illudersi che “ancora non è accaduto”. Questo, nonostante la ragione ci dica che sapere di avere un problema è il primo passo per risolverlo. Ma forse temiamo di scoprire che il problema non si può risolvere e, anzi, sospettiamo che la vita stessa sia un problema irrisolvibile. Vero, ma è il coraggio di provarci a renderla, il più delle volte, degna di essere vissuta.
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