L’altroieri un programma serale della Rai ospitava un ministro. Non è una notizia. me ne rendo conto. E neppure fa notizia la specifica identità del ministro: basterà dire che si tratta di quel personaggio che ama informarci regolarmente delle sue abitudini alimentari per poi professare un’intransigente quanto ostinata avversione per le conseguenti emissioni intestinali: «Io non mollo» è la sua dichiarazione programmatica più frequente.
Come possono due circostanze che non fanno notizia diventare una notizia? In effetti, non possono. Ciò non toglie che dovrebbero. Non tanto per quel che ha detto il ministro - nulla di sorprendente, conoscendolo - ma per quello che non hanno detto le altre persone presenti.
Si parlava, nella trasmissione, di razzismo negli stadi, in particolare dei fastidiosi cori e degli odiosi “buu” rivolti anche di recente a giocatori dalla pelle nera.
«Se si fa “buu” contro un giocatore bianco - ha osservato il ministro -, non è razzismo quello?». E ancora, a chi gli ha chiesto se, secondo lui, in caso di cori razzisti è giusto sospendere le gare, ha ribattuto: «Già, così se la tua squadra perde, ti alzi e fai “buu” e la partita è sospesa».
A far notizia, insisto, non le parole del ministro ma il fatto che nessuno abbia trovato il coraggio o lo spirito di respingerle con osservazioni perfino banali: 1) il problema di stabilire se è razzismo o no fare “buu” contro un giocatore bianco si presenterebbe in uno stadio con circa il 95% di spettatori neri, cosa che da queste parti non accade spesso: porre la questione in quei termini significa di fatto eluderla; 2) gli atteggiamenti razzisti degli spettatori potrebbero venire scoraggiati - e le società di calcio stimolate ad affrontare di petto il problema - se tali intemperanze avessero ricadute sostanziali anche sul piano sportivo: squalifiche del campo e penalizzazioni. Per quanto suoni radicale, è l’unico modo di prendere sul serio un problema serissimo.
Comunque sia, di tutto ciò si dovrebbe almeno discutere, ma, in presenza del ministro, non è accaduto: nello studio della Rai è calata una quiescenza ovina, una pretesa indifferenza da “tengo famiglia”, molto probabilmente dettata dalla convinzione che, oggi, opporsi a ciò che viene presentato come “buon senso” (una categoria inesistente: esiste invece il “senso comune”, e molto spesso non è affatto buono, tutt’altro) è ad altissimo rischio: si rischia di passare per “intellettuali” - termine forse già in origine forgiato con intento ironico e spregiativo - oltre che per snob, elitari e, in definitiva, “nemici del popolo”.
Ecco allora che la “chiacchiera da bar”, importata nelle istituzioni e nei programmi tv, è diventata “monologo da bar”: non è più lecito nemmeno tentare di opporsi, non dico con argomenti di alta filosofia, ma neppure con osservazioni di semplice logica, con ragionamenti che, lungi dall’essere “intellettuali”, provano almeno a evitare la banalità.
Rispetto a questo quadro dominato dal prudente silenzio, il bar di una volta, con i suoi chiacchieroni polemici, alimentati a grappa e bianchini, risalta come una straordinaria palestra di democrazia, un tempio della dialettica. Per carità, oggi il bar è ancora aperto, ma la nuova gestione non ammette repliche.
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