Non sono stato previdente: solo fortunato. Sta di fatto che, quest’anno, una serie di circostanze mi ha offerto l’occasione di sistemare in anticipo gli acquisti di Natale per cui, oggi, vedo davanti a me dieci giorni di tardo dicembre nei quali non vivrò scene di calca nei negozi, incertezza davanti a un regalo, impazienza nell’attesa dell’impacchettamento, istantaneo rimpianto all’estrazione della carta di credito.

In altre parole prevedo, per quanto è possibile, un Natale privo di stress. Ora che l’ho scritto – il che equivale a dire che l’ho confessato, a me stesso prima che a voi – devo dire che non mi sento affatto soddisfatto. Se devo essere sincero – o almeno provare a esserlo – riconosco nel sentimento improvviso che mi ha raggiunto una sorta di amarezza: quella, tipica, che si accompagna al senso di colpa. Possibile che, dopo anni e anni di affannosa consuetudine, lo stress sia diventato parte essenziale del Natale?

Pensandoci, rivivo i dicembre degli ultimi anni – diciamo pure decenni – e riconosco in loro il tratto comune di un tempo che si muove a precipizio: mille cose da fare e poche ore a disposizione, in un crescendo di cose da fare e in un diminuendo di ore, fino all’atterraggio, esausto, al giorno di Natale, nel quale tutto finalmente sembra sospendersi, trovare quiete e, insieme, calore e una promessa di riposo. Vuoi vedere che questa seconda parte, tanto agognata, esiste solo in contrasto rispetto alla prima? È possibile che senza lo stress delle prime settimane di dicembre, non si maturi il diritto di godere della quiete natalizia che subentra alla tempesta, il 25 e il 26, giorni risparmiati allo sconquasso come l’occhio del ciclone è esonerato dal disastro? Spero di no; voglio credere che un’estensione della pace natalizia sia possibile e che io – per pura fortuna, ripeto – abba finito per trovarla. Ma intanto il dubbio si è insinuato e l’ansia cresce. Ho deciso: alle 18,30 del 24 uscirò di casa per fare, in extremis, un regalo a me stesso: un bel Natale candito di stress.

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