In un bel disco dal vivo ("Live in Dublin 2006") il cantautore Christy Moore, noto per le sue idee progressiste e per l’adesione, almeno ideologica, all’indipendentismo irlandese, affronta a un certo punto "Ordinary man", una ballata intensa, confezionata al giusto punto di indignazione, che racconta di un operaio non più giovane rimasto senza lavoro: «Per quanto vivrò» dice tra l’altro il testo, «non vi perdonerò mai: mi avete spogliato di orgoglio e dignità».
Nel presentare la canzone, Moore precisa che «è stata scritta durante l’era Thatcher». Pausa, e poi il commento: «Una cosa posso dire di Margaret Thatcher: durante il suo governo sono state scritte delle gran belle canzoni».
Curioso che ora, nel giorno della morte dell’ex primo ministro britannico, la battuta di Moore suoni ben poco sarcastica: addirittura, potrebbe sembrare un complimento sincero, convinto. Naturalmente, non c’era alcun elogio, esplicito o implicito, nella frase del cantautore: egli intendeva dire che, con la sua politica, Margaret Thatcher aveva inciso profondamente nel corpo vivo della società, operazione destinata a suscitare pene, sconforto e dunque protesta, la cui conseguenza ultima è spesso quella di stimolare la sensibilità degli artisti.
Per Moore e per molti altri, la baronessa Thatcher era un nemico e come nemico andava certo odiato ma altrettanto inevitabilmente riconosciuto. È per questa ragione che, oggi, la battuta di cui sopra suona, provenendo da un avversario, stranamente generosa e perfino complice. Le posizioni, nette e convinte, dell’ex primo ministro avevano il vantaggio di poter essere individuate, definite, osteggiate. Al punto da suscitare nientemeno che il risveglio delle scienze morali.
Il magma in cui sprofondiamo oggi, provocato da meccanismi anonimi e impersonali e aggravato da incapacità generazionali, non concede tanto: ci inghiotte e basta, senza che ci sia qualcuno a cui poterle cantare.
Nel presentare la canzone, Moore precisa che «è stata scritta durante l’era Thatcher». Pausa, e poi il commento: «Una cosa posso dire di Margaret Thatcher: durante il suo governo sono state scritte delle gran belle canzoni».
Curioso che ora, nel giorno della morte dell’ex primo ministro britannico, la battuta di Moore suoni ben poco sarcastica: addirittura, potrebbe sembrare un complimento sincero, convinto. Naturalmente, non c’era alcun elogio, esplicito o implicito, nella frase del cantautore: egli intendeva dire che, con la sua politica, Margaret Thatcher aveva inciso profondamente nel corpo vivo della società, operazione destinata a suscitare pene, sconforto e dunque protesta, la cui conseguenza ultima è spesso quella di stimolare la sensibilità degli artisti.
Per Moore e per molti altri, la baronessa Thatcher era un nemico e come nemico andava certo odiato ma altrettanto inevitabilmente riconosciuto. È per questa ragione che, oggi, la battuta di cui sopra suona, provenendo da un avversario, stranamente generosa e perfino complice. Le posizioni, nette e convinte, dell’ex primo ministro avevano il vantaggio di poter essere individuate, definite, osteggiate. Al punto da suscitare nientemeno che il risveglio delle scienze morali.
Il magma in cui sprofondiamo oggi, provocato da meccanismi anonimi e impersonali e aggravato da incapacità generazionali, non concede tanto: ci inghiotte e basta, senza che ci sia qualcuno a cui poterle cantare.
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