Niente festa

Vorrei farne una questione di costume, avanzare una critica sociale, svolgere il mio pistolotto contro le ricorrenze imposte dal calendario per ragioni più o meno commerciali, ma non ci riesco: la colpa è soltanto mia e farei bene ad ammetterlo.

La colpa, in questa circostanza, è di non avere sensibilità alcuna per le feste che, con regolarità ormai tradizionale, celebrano padri, mamme e donne. Ci deve essere qualcosa di sbagliato in me - o, piuttosto, qualche cosa che manca - perché non riesco ad associare a queste giornate nulla che rievochi il concetto di paternità, l’amore delle madri e l’omaggio dovuto alle donne.

Oggi che i social network mi portano i sentimenti altrui fin sotto gli occhi, vedo che tante persone ci riescono benissimo.

Ieri, festa del papà, ho incontrato omaggi tenerissimi, commoventi, di nuda sincerità e di amorevole rimpianto. In me nulla, zero, se non un’ammirazione quasi estranea, troppo razionale, per la sensibilità degli altri: quasi che la faccenda non mi riguardasse e non avessi avuto anch’io un padre e, per lui, mai fossi stato un figlio.

Credo che Proust le chiamasse “intermittenze del cuore”: a volte è difficile mettere la ragione al passo con i propri sentimenti. I miei non sono in sintonia con le “feste comandate”: se ne può dedurre che sono sentimentalmente asociale.

Così, mi aggiro per la festa del papà - e per quella della mamma - come faceva Paolo Conte nel pomeriggio di “Azzurro”: tutti sono da un’altra parte e io non trovo «neanche un prete per chiacchierar».

Aspetto ancora il momento in cui la consapevolezza di aver avuto una mamma - e di non averla più -, di aver avuto un padre - e di non averlo più - arriverà a colpirmi con tutta la forza che sarà necessaria: oltre al dolore per la perdita, già provato, oltre la sofferenza per l’abbandono, già conosciuta. Sarà, credo, una consapevolezza quasi universale, cosmica, come una verità rivelata e indiscutibile. Dubito però che potrò chiamarla “festa”.

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