Cercare il termine “understatement” in un qualunque dizionario italiano-inglese, compresi quelli online, può rivelarsi un’esperienza deludente: le risposte più frequenti sono “attenuazione” e “minimizzazione”. Non c’è errore, ma nondimeno si perde quasi del tutto il significato originale.
Meglio cercare la definizione offerta da un vocabolario inglese, per esempio il Merriam-Webster: 1. dichiarare qualcosa per meno di ciò che è (per esempio il reddito imponibile); 2. dichiarare o presentare con voluta moderazione a scopo di effetto. Ci avviciniamo, e di molto, ma resta da scoprire che cosa sia di preciso quell’“effetto” che, a quanto pare, rappresenterebbe il nostro “scopo”. Altre ricerche ci consentono di scoprire una figura retorica - la litote - che consiste nell’usare una forma negativa in luogo di una positiva, con effetto, appunto, di “understatement”: «Non è male», per esempio, invece di «È buono» o di «È bello».
Tutto questo è giusto, ma ancora qualcosa sfugge alla nostra piena comprensione dell’“understatement”. L’effetto ironico, o addirittura comico, che lo accompagna nella lingua inglese («Beh, questo getta un’ombra sull’intera serata» dice un commensale quando , in un film dei Monty Python, la Morte in persona interrompe la cena) è infatti fondamentale: attesta l’intelligenza di chi lo usa, misura la sua modestia, alleggerisce un’atmosfera pesante e incoraggia nel prossimo uno spirito affabile e perfino una voluttà di coraggio.
Mi rendo conto di aver ingarbugliato la matassa, ma la colpa non è solo mia: purtroppo abbiamo a disposizione sempre meno esempi vivi di “understatement”. Al contrario, ogni problema è “emergenza”, ogni contrarietà “allarme”, ogni risultato “eccezionale” e ogni gesto “straordinario”. Resto convinto però che alla fine l’“understatement” prevarrà: come si potrà meglio commentare l’arrivo della fine del mondo se non con una scrollata di spalle e la constatazione che «stasera non ci sarà bisogno di puntare la sveglia?»
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