Non sono io a scoprire come il fascino di Venezia sia un misto di splendore e decadenza. Il sole brilla sui magnifici palazzi del Canal Grande e, nelle calli più anguste, l’acqua ristagna e marcisce, mentre le facciate dei palazzi più defilati sfioriscono per mancanza di aria e di luce.
Svolte improvvise tra meraviglia e scadimento, tra incanto e disgusto fanno di Venezia una sintesi e un simbolo: tra le altezze umane e le sue bassezze la distanza è minore di quel che si crede e, spesso, la bruttezza è solo l’altra faccia della bellezza.
Venezia si porta appresso questa ambiguità da tempo immemore. In tempi relativamente vicini al tempi nostri, lo scrittore Henry James, negli appunti raccolti in “Ore italiane, annotava come, già alla fine del XIX secolo, la città si presentasse al visitatore in una versione sfiorita e saccheggiata di se stessa. Non per questo, precisava James, si era dispensati dall’amarla e il viaggiatore doveva considerarsi immune dal suo straordinario fascino.
Vorrei risparmiare a Henry James lo sconforto di passeggiare per la Venezia d’oggi, ma sarei anche molto curioso di conoscere la sua reazione. In città, leggo, si sono moltiplicate le iniziative per scoraggiare gli autori dei graffiti che deturpano le antiche mura, ma dubito possano essere efficaci. Quale livello di penetrazione dovrebbero possedere, tali campagne di informazione, per farsi strada oltre le ossa craniche di chi non vede come, scribacchiando con lo spray su Venezia, faccia un danno esponenzialmente più grave che agendo nello stesso modo in (quasi) ogni altra città del mondo? Henry James non riuscirebbe a convincerlo di sicuro - troppo complesso e raffinato - ma neanche Charles Bukowski riuscirebbe a farci due parole. Un martello pneumatico, forse, potrebbe farsi capire. Eppure il concetto, caro graffitaro, non è difficile. C’è degrado e degrado. C’è il degrado poetico e quello volgare. Il tuo non è né l’una né l’altra cosa: è solo noioso.
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