Sarà che, di tanto in tanto, mi coglie quella che, nei dizionari medici, viene definita “Sindrome del rognone”, senza riferimento alla gustosa frattaglia ma con specifica allusione a quel sentimento di insoddisfazione che, seppur vago, induce alla critica contro tutto e tutti. Questi attacchi di “Sindrome del rognone” non mi sovvengono spesso e nella maggior parte dei casi, sono in grado di sopprimerli. Quasi sempre, però, la crisi è soltanto rimandata: alla fine, prima o poi, la Sindrome ha la meglio e l’oggetto del mio discontento salta come un tappo di spumante.
La rubrica di oggi è dunque la conseguenza di uno di questi attacchi; ho cercato di soffocarlo finché ho potuto ma ora devo dirlo: vorrei tanto che la gente smettesse di «adorare».
Il verbo «adorare» è antico, nobile, impegnativo , perfino un po’ barocco, eppure oggi lo si porta con tutto e su tutto, con effetti, spiace dirlo, ridicoli e affettati: un po’ come se andassimo in giro con i jeans e il parruccone settecentesco.
Dice la Treccani che il termine “adorazione” era usato nell’antichità «per indicare gli atti esprimenti il sentimento di venerazione verso la divinità o un oggetto sacro o una persona ritenuta anche essa sacra». Più tardi, con ebraismo e cristianesimo, l’adorazione verrà « intesa come manifestazione di un sentimento di timore e insieme di rispetto e amore verso Dio».
Non so come tutto ciò possa conciliarsi con l’attuale e multiforme impeto di adorazione che investe, tra l’altro, i cantanti rock, le scarpe Tod’s, gli spaghetti allo scoglio, i film di Clooney, le tovaglie a quadri, i libri di Baricco, il teroldego rotaliano, le battute di Crozza, il cioccolato Godiva e, in blocco, Dolce & Gabbana.
Forse è troppo sperare nella restituzione del verbo “adorare” al suo originale significato liturgico; basterebbe tener presente che esistono valide alternative. Dire «mi piace molto il gelato» è corretto, efficace, sintetico e non c’è rischio di sbrodolarsi.
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