Non è che muore Fidel Castro e uno può evitare di buttarla in politica. Un dittatore, da vivo e da morto, si porta dietro il ruolo che ricopre, sia nell’autoritaria e brutale realtà sia nell’immaginazione dell’utopia e perfino nel pregiudizio di chi odia a prescindere.
Dunque, come scrivono gli editorialisti veri, il giudizio finale su Fidel non può prescindere dal suo regime e dal colore che egli volle apporvi. Il leader cubano andò al potere ben prima di Deng Xiao Ping e, differenza di quest’ultimo, per lui il colore del gatto contava eccome: lo voleva, senza eccezioni, rosso.
Ma siccome io non sono un editorialista vero - penso si sia capito - per me la morte di Fidel è una questione in cui la politica conta zero. Conta, invece, il progressivo sgretolarsi di un mondo che conoscevo a favore di un nuovo panorama che non conosco affatto. Sarebbe ridicolo - e patetico - dire che sento nostalgia di Fidel, eppure anche lui, con la barba, i sigari e la retorica comunista trapiantata ai Caraibi, era una figura essenziale perché si componesse un familiare affresco mondiale - e perché l’affresco fosse precisamente quello e non un altro - che scioccamente, per essenziale illusione, credevo immutabile.
Nel mondo popolato da Fidel, Bowie, Cohen, Alì, Cruijff (ma anche Popper, Fromm e Harold Bloom, solo l’ultimo ancora vivente) ognuno collocato al suo posto a far da amalgama o contrasto con l’altro, riesco a orientarmi; in quello di oggi, preso in carico da altri personaggi, no. Sarebbe facile dire che i personaggi di cui sopra sono Trump e i neogiacobini da web, gli smarriti Lapo e gli strampalati Corona: non lo dirò perché denuncerei soltanto amarezza e irritazione e l’incapacità a trovare punti di aggancio in un cambiamento che, semplicemente non sono più in grado di comprendere. Consola il fatto che non sono il solo: Fidel, di sicuro, non lo capiva da un pezzo.
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