Le celebrazioni in occasione dell’anniversario della nascita o della morte di una personalità artistica - uno scrittore o un attore, un regista piuttosto che un pittore - offrono di solito l’occasione della riscoperta. Se il tempo ha diluito il loro ricordo e annacquato la densità del loro segno, ecco che la ricorrenza consente di recuperare quanto perduto: rileggere libri, riguardare film, organizzare mostre e, anche attraverso importanti interventi critici nei giornali e nelle riviste, riassegnare a costoro il posto che meritano nella storia e nella cultura. In più, siccome il tempo è letteralmente denaro, ristampe e manifestazioni varie permettono a editori e affini di guadagnare qualche soldino.
Tutto questo, però, appare futile se l’anniversario in questione è quello dei 50 anni dalla morte di Totò. La sua figura - la sua maschera, per la precisione - è infatti rimasta con noi per tutto questo tempo: mai c’è stato un distacco o una diluizione. Perché dunque recuperare ciò che non abbiamo mai perduto?
Eppure, il rito - vuoto di senso - si ripete automaticamente: serie di film in tv, articoli nei giornali, nuove biografie in libreria. Tutto per ricordare l’eccezionalità del “Principe della risata”. E invece, mi permetto di dirlo, se proprio dovessimo azzardare una ricollocazione della figura di Totò dovremmo parlare di esemplare normalità.
Riguardandola per piacevole abitudine e per abitudine del piacere, la «marionetta napoletana» colpisce per essere, in gran parte dei ruoli, un’isola di normalità, di buon senso e di umiltà circondata da un tempestoso mare di follia.
Eccentrico, ma mai pazzo, Totò è quasi sempre alla prese con matti veri e pericolosi: militari, burocrati, politici. Personaggi tronfi e arroganti che anticipavano,semmai con troppa timidezza, l’incredibile caravanserraglio che oggi invade le strade. Un confuso circo nel quale, per districarsi, purtroppo non basta più separare gli uomini dai caporali.
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