Non c’è dubbio alcuno: la parte bella, nel giornalismo, è la cronaca. Ovvero la tecnica, ma si potrebbe definire “arte”, del raccontare i fatti più significativi che accadono intorno a noi. L’aggettivo “significativo” è ampio abbastanza per contenere una quantità di storie: drammatiche, ridicole, tragiche, buffe.
Il cronista, se intenzionato a far bene il suo mestiere, presenterà la storia che gli compete con la completezza data dalla ricerca di informazioni che ha effettuato e, senza cerca di passare per Hemingway, vorrà trasmetterne al lettore ogni sfumatura, ogni riflesso, suggerendo magari - possibilmente senza essere troppo didascalico - che oltre il fatto nudo e crudo c’è quasi sempre di più.
Quando avrà fatto un po’ di esperienza, si sarà reso conto che i migliori fatti di cronaca, quelli, appunto, oltre ai quali c’è “di più”, sono spesso un misto di tragedia e buffoneria, una mescolanza di dolore e risate. A lui, al cronista, sarà purtroppo impedito di calcare la mano su questa ambiguità del reale: il rispetto per i protagonisti della vicenda - sempre persone in carne e ossa - deve prevalere. È vero anche, però, che ci sono casi un cui l’irruzione del ridicolo nel tragico è talmente plateale da non poter essere ignorata.
Prendiamo il caso di una notizia diffusa giusto ieri. In essa si raccontava di una serie di arresti effettuati tra Lazio, Abruzzo, Calabria, Veneto ed Emilia ai danni di persone accusate di «associazione per delinquere finalizzata alla commissione di truffa, conferimento illecito di onorificenze e decorazioni cavalleresche e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». Attribuendosi falsamente la qualifica di Cavalieri di Malta, queste persone chiedevano denaro a cittadini stranieri promettendo loro l’ingresso in Italia e una successiva occupazione lavorativa.
Niente di buffo, in tutto ciò, non fosse per il fatto che bisogna proprio essere poveri immigranti per non sapere che, da noi, chi è Cavaliere non necessariamente fa promesse degne di fede.
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