Può sembrare eccessivo e futile chiedere alla scienza medica di salvare, oltre alle prostate, ai pancreas, alle valvole mitraliche e ai metatarsi, anche i nostri ricordi. I dottori, si sa, hanno sempre tanto da fare e, se proprio vogliamo che nulla nella nostra testa vada perduto, sarà bene tenere un diario, un ordinato album fotografico o, soluzione elegantissima anche se perfida, procedere a bombardare i nipotini con le nostre storie d’infanzia in modo che il loro giovane cervello funga da “backup” per il nostro, ormai bollito e avariato.
Basta rifletterci sopra, tuttavia, per capire che la missione di “salvare i ricordi” è tra le più nobili alle quali la medicina possa dedicarsi: il suo scopo ultimo è infatti quello di garantire l’identità di ognuno, caratteristica senza la quale gli altri per noi non sono più nulla e noi non siamo più nulla per gli altri.
Deve allietarci, dunque, la notizia che grazie alla ricerca medica sarà possibile recuperare, nei malati di Alzheimer, quei ricordi che sembrano scomparsi, travolti dalla malattia e da quell’apparente impotenza psicologica che l’accompagna. La possibilità, a quanto pare, riguarda per ora solo le fasi iniziali del morbo, ma è certo meglio di niente.
Secondo i ricercatori, la perdita di memoria agli albori dell’Alzheimer non è dovuta alla dissoluzione del ricordo stesso, che rimane ben immagazzinato nel cervello, ma a un problema di trasmissione a livello dei neuroni: stimolando le “spine dendritiche”, che fanno da tramite tra lo stimolo esterno che evoca il ricordo e il ricordo stesso, si ottiene un risveglio della memoria.
Un successo medico? Niente affatto: un trionfo umano. Perché dietro al ricordo “risvegliato” si delineano, come emergendo dalla nebbia, i contorni di tutta un’esistenza, le sue dolci vallate e i suoi crinali rocciosi, i mari placidi e le cascate colleriche. Tutto, insomma: io, voi, noi. E l’orgoglio di essere più che un ammasso di cellule.
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