Il pullman, uno di quei grossi affari dalle fiancate multicolori, inghiotte il vociante gruppo nel giro di pochi secondi. Il motore romba, le ruote girano, il pullman si allontana. E il volto del portiere d’albergo, sopra il colletto ben allacciato, per un momento si rilassa.
Per un momento, appunto, perché in distanza s'ode un altro rombo: è un secondo pullman, in tutto simile al primo non fosse per i colori ancor più oltraggiosi, ma questo si avvicina, invece di allontanarsi e il portiere tradisce un moto di angoscia nell'irrigidimento della mascella.
Un gruppo è appena partito e un altro arriva. È stato così per tutto il giorno e così sarà per tutto il mese e per tutto l'anno. Hong Kong, porto franco commerciale tra i più brulicanti del mondo, accoglie visitatori dalla Cina Popolare per gite “acquista e fuggi”. Gli indigeni non discutono d'altro e non in termini entusiasti: i cinesi “popolari”, in confronto a quelli di Hong Kong, hanno maniere più approssimative. Parlano tutti insieme e ad alta voce, chiamandosi da un canto all'altro del negozio, dell'albergo, del ristorante. Come se non bastasse, tagliano le code, rubano i taxi, spingono sulla metropolitana e, in generale, esbiscono tutta la rugosa arroganza dei nuovi ricchi. Secondo gli hongkonghesi, la smania di acquisti dei loro cugini cinesi è alla base di ogni male: i prezzi sono saliti in tutti i settori, non ultimo quello immobiliare, cosa di cui la città non sentiva proprio bisogno.
D'altra parte, nessuno osa negare che del loro denaro ci sia assoluto bisogno: dovremmo apprezzarlo anche noi in Italia, visto che molti degli oggetti di lusso da loro acquistati portano la firma dei nostri stilisti. Pur masticando amaro, insomma, a Hong Kong prendono atto di una potente legge di natura: più uno ti sta sull'anima e più ne hai bisogno.
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