Ozio e lavoro

Ozio e lavoro

Apprezzo molto gli studi psicologici che si dedicano all’osservazione dell’uomo preso nella sua quotidianità. In questi studi ricorre spesso la parola «felicità»: una circostanza che li rende immediatamente attraenti.

Una volta al sicuro dalla miseria - sia essa materiale o morale - l’uomo incomincia a farsi ambizioso ed ecco che lo pizzichiamo spesso a parlare, o a straparlare, di felicità ed è interessante vedere come egli cerchi di raggiungerla.
Un recente studio mette in relazione la felicità con l’ozio e con l’attività, per giungere a una scoperta sconfortante: l’uomo è più felice quando si tiene occupato ma, per sua indole, è convinto che lo sarebbe in misura ancora maggiore qualora gli fosse consentito di sprofondare nell’accidia. A dimostrazione di tutto ciò, valga un esempio. È noto che, in aeroporto, bastano quindici o venti minuti di attesa alla consegna dei bagagli per ritrovarci a sguazzare in uno stato d’animo fatto di impazienza, irritazione, noia e sconforto: a due passi dall’infelicità, dunque. Gli stessi quindici o venti minuti trascorsi a camminare nei meandri dell’aeroporto al solo scopo di raggiungere la consegna bagagli, ci riempiono di un sentimento ben diverso: anticipazione, eccitazione, speranza. Siamo nei paraggi della felicità. Il problema è che, per qualche ragione, difficilmente riconosciamo all’attività questo apparentamento con la beatitudine. Una condanna, questa, e insieme una fortuna perché, fosse altrimenti, qualcuno potrebbe far pagare a noi gli straordinari che facciamo.

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