Da oggi, è calcio. Calcio mondiale, perdipiù. In Brasile, nientedimeno. La ventesima edizione dei mondiali annuncia una girandola di colori moltiplicata sia dall’alta definizione televisiva sia dal Paese, cromaticamente generoso, che la ospita. Peccato solo si sappia già chi ha vinto: il Brasile.
Il mio pronostico non può dirsi spericolato: il Brasile dispone della squadra in teoria più forte e gioca davanti al suo pubblico. Soprattutto, ha bisogno di vincere.
Mai come questa volta una manifestazione sportiva coincide con il destino di una nazione: se vince, il Brasile può entrare in una dimensione economica e sociale diversa, migliore, affrancandosi una volta per tutte dal Terzo mondo per trattare alla pari con i Paesi cosiddetti sviluppati; se perde, ricomincia da capo. Anzi, da una posizione peggiore, nella quale esploderanno, fatali, le contraddizioni del fallimento, la delusione degli investitori, l’incertezza della situazione politica, la fragilità economica.
Può sembrare un rischio troppo alto perfino per una squadra oggettivamente forte come quella brasiliana: nessuno, per quanto favorito e messo nelle condizioni migliori di primeggiare, può reggere una pressione del genere senza vacillare almeno un po’. E poi, diciamocelo, è giusto affidare a un torneo di pallone il destino di un Paese? La riuscita economica non dovrebbe essere il frutto di un persistente e ostinato sforzo comune, un edificio costruito un mattone alla volta, con lentezza ma anche con sapienza e cura? Come è possibile che, invece, il destino ultimo di milioni di persone si giochi in poche settimane frenetiche di spettacolo, spreco, leggerezza, frenesia e paura?
Giusto, probabilmente non lo è. Di sicuro, però, è lo specchio del mondo: oggi incline alla scommessa, alla fascinazione repentina e bruciante, ai verdetti taglienti e approssimativi. Un mondo da prendere a calci perché non ti prenda a calci. Buon divertimento.
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