Da tempo leggo articoli che annunciano la “morte della password”. In questi testi, sempre molto ispirati e percorsi da quel tono di saccenza che invoglia a dar la caccia al redattore in modo da pestargli un callo, si dice che, presto, per accedere a dati e servizi personali dovremo ricorrere a impronte digitali piuttosto che a sistemi di riconoscimento della voce o dell’iride. Questo, appunto, perché la “password è morta” in quanto non è più considerata una protezione affidabile.
Sarà vero, fatto sta che, personalmente, non mi è più possibile contare quante volte ogni giorno sono chiamato a “farmi riconoscere” attraverso combinazioni di lettere e numeri in modo da accedere a funzioni e programmi - compreso quello necessario a scrivere questo articolo - che mi servono per vivere, lavorare, comunicare. Capisco però l’urgenza - la fretta quasi - di volerla superare: la “password” ( in italiano: parola d’ordine), rappresenta in fondo un artificio efficace ma un po’ puerile. Ricorda i giochi d’infanzia, in cortile: uno tiene il “fortino” e l’altro fa l’indiano che lo vuole assaltare. “Parola d’ordine!” “Fichi con la pizza!” “Sbagliato: era pizza con i fichi”. “È la stessa cosa!” “No!”.
A pensarci, sarebbe invece il caso di applicare al mondo degli adulti altri sistemi cari ai bambini: ne guadagnerebbero l’ordine e la giustizia sociale. L’applicazione rigorosa della “conta” potrebbe risolvere problemi di precedenza e conflitti nell’assegnazione di incarichi e promozioni; la regola “vietato sputare e tirare i capelli” migliorerebbe di netto il comportamento di chi frequenta i circoli istituzionali e l’applicazione corretta dell’appello “arimo!” spalancherebbe nella convulsa realtà quotidiana benefici spazi di tregua, riposo e contemplazione.
Purtroppo, per applicare efficacemente questi dispositivi è necessario possedere un’etica e rispettarla.Un’etica grossolana, semplice, rozza e perfino ingenua. Niente a che vedere con la nostra raffinata cialtroneria.
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