C’è chi se la prende senza mezzi termini con il 2020 - anno bisestile, peraltro - come se fosse un mostro alla Godzilla che devasta il nostro mondo, fattosi improvvisamente di cartapesta, oppure un condottiero delle steppe che, alla testa dei suoi brutali guerrieri, fa strage nei villaggi lasciando dietro di sé solo terra bruciata.
La colpa del 2020 sta nell’aver portato il Covid-19 (anche se a guardar bene l’incubazione è incominciata nel 2019) per poi privarci di tanta gente cui volevamo bene. Non solo i parenti e gli amici che non ce l’hanno fatta a superare la malattia: ci ha tolto anche un gran numero di personaggi pubblici di riferimento, ai quali guardavamo più collettivamente che individualmente. Artisti, scrittori, filosofi, sportivi. Perfino al povero Alex Zanardi è toccato un colpo durissimo, come se l’aver dimostrato - e ampiamente - d’essere un uomo pieno di coraggio l’avesse esposto a una sorta di reiterata vendetta del destino.
E noi? Come reagiamo a tanti affronti? Con un fiume di parole, innanzitutto. Parole scritte o registrate nei media e condivise e commentate mille e mille volte. Parole a volte bellissime, a volte semplici; in qualche caso ispirate, in qualche altro intessute di luoghi comuni. Comunque parole: star zitti non si può. Forse anche perché temiamo di fare brutta figura: questo costante fluire di opinioni e commenti esige la nostra presenza, altrimenti ci denuncia per freddi e insensibili, superficiali e disinformati.
Ma la ragione principale di tante parole credo sia un’altra: di fronte a un mondo che si è fatto imprevedibile e pericoloso e che continuamente perde pezzi familiari per sostituirli con incertezze e misteri, non resta che lamentarsi. Nel ricordo e nel rimpianto, almeno lì, possiamo ricostruire la mappa di un territorio che conoscevamo bene e che, dietro gli angoli, non riservava mortali sorprese.
Era il mondo in cui le punizioni “a foglia morta” di Mariolino Corso entravano immancabilmente in porta e i tiri di Kobe Bryant finivano dritti a canestro, in cui i libri di Emanuele Severino e Giulio Giorello potevano sempre insegnarci qualcosa di interessante, i romanzi di Arbasino e Zafón inducevano sorrisi e commozione, la musica di Ezio Bosso sapeva come alzarci in volo e i film di Max Von Sydow e Michel Piccoli divertirci e farci pensare.
I troppi lutti di questa stagione, spinti dal vento nero del coronavirus, hanno mutilato le nostre vite affettive e intellettuali: francamente, non ne possiamo più. Qualcuno ha firmato per entrare in questo film distopico, interpretato da virologi fuori parte, diretto da politici senza idee e senza copione e, soprattutto, indirizzato a un finale che non sarà né lieto né triste ma deprimente? No! E allora giù parole, tante parole. Parole che conosciamo e ci fanno forza, che ci restituiscono un benedetto senso di familiarità. Parole che non servono a niente se non a tutto.
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