Parole e binari

In qualità di utente giornaliero delle ferrovie locali lombarde godo di alcuni inestimabili privilegi. Il primo è quello di appartenere a una genìa temprata contro ogni avversità, una fratellanza i cui membri risultano uniti da un vincolo più forte del sangue: quello dei binari. A ogni notte di luna piena ci raduniamo in un luogo segreto e, alla luce dei falò, intoniamo antichi canti ferroviari, ci mostriamo l’un l’altro le cicatrici riportate in scossoni e brusche frenate, aggiorniamo il conto della quota di vita persa a causa dei ritardi, delle cancellazioni e dei deragliamenti.

Un altro privilegio niente affatto trascurabile è quello di poter osservare da vicino i confratelli passeggeri durante le tratte quotidiane. La lunga frequentazione consente paragonare i passeggeri attuali con quelli del passato e di apprezzare le trasformazioni antropologiche avvenute nel corso degli anni. Queste osservazioni conducono a scoperte interessanti, in qualche caso malinconiche. Come, per esempio, la necessità di dichiarare la morte, o la profonda agonia, della conversazione da treno.

La diffusione dei telefoni cellulari e degli iPod ha trasformato ogni passeggero in un’isola: egli o ella ancora ascolta, ma solo la sua musica, ancora parla, ma con qualcuno collegato via telefono. Ben difficilmente si deciderà, vinto dalla noia, dalla curiosità e dal franare delle inibizioni causato dalla forzata convivenza in uno spazio angusto, a compiere quel piccolo gesto di coraggio necessario a rivolgere la parola a uno sconosciuto. Con il risultato di privarci di quelle conversazioni un poco assurde, molto umane, buffe e stranamente profonde in cui si intrecciavano dialetti, si scontravano gesti, esclamazioni, preghiere, scongiuri e infine si scambiavano struffoli e vini calabresi.

Intervalli di umanità che, all’arrivo, ci lasciavano una forte e duratura impressione: come se la vita vera fosse il viaggio e la destinazione solo uno stagnante parcheggio dell’anima.

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