Parole parole

Alcuni di voi, spero non pochi, ricorderanno quell'antico gioco da tavola chiamato Scarabeo. Esso viene da prima dei videogiochi, non comporta effetti speciali, non chiede di accoppare nessuno a pistolettate, non esige "vite" e non prevede livelli.

Un gioco preistorico, insomma, della generazione Monopoli, ovvero in fondo quella appena successiva a scacchi e dama. Se ben poca è l'azione drammatica insita nel gioco, quella intellettuale, se così vogliamo dire, non manca: Scarabeo chiede di formare parole con le lettere sorteggiate tra i concorrenti e di disporle sulla tavola di gioco in una griglia simile ai cruciverba. Tipico è il caso di chi, abbondantemente provvisto di consonanti e ridotto in scarsità di vocali, schiera parole come “zstivrx”, sostenendo trattarsi di una divinità egizia a protezione delle passeggiate nei parchi. Tentativo futile - ogni buon giocatore di Scarabeo lo sa - perché ad essere ammesse sono solo le parole contenute del Dizionario allegato al gioco.

Forse nel tentativo di riattizzare la fiamma dello Scarabeo - Scrabble, nell'originale anglosassone - la Habro, casa produttrice del gioco, ha deciso di accettare contributi esterni al Dizionario. I giocatori potranno proporre via Facebook lemmi che una commissione deciderà se ammettere o meno.

La posta in gioco è evidentemente altissima. Qui corriamo il rischio che nel nobile gioco dello Scarabeo vengano accolti orrori come “buonismo”, “attimino”, “inizializzare” ed “esodato”. Ma c’è poco da fare: la lingua procede nella sua marcia storica assorbendo nel percorso ciò che i tempi hanno da offrirle. Noi viviamo nei giorni del “mi faccia resettare” e dell’“adesso lo googlo”. È forse giusto che Scarabeo si adegui anche se, a mio avviso, dovrebbe portare questo processo di democrazia verbale alla sua piena conseguenza: se qualcuno può votare per cacciar dentro certe parole, ebbene, qualcun altro dovrebbe poter fare altrettanto per buttarle fuori.

© RIPRODUZIONE RISERVATA