Difficile staccarsi da un bel libro. Il sentimento si moltiplica se il libro addirittura ci inghiotte: ovvero se, afferrando le parole per la coda, è facile ritrovarsi altrove rispetto a se stessi e, soprattutto, lontani da abitudini, incombenze e carabattole della vita quotidiana.
Per mia fortuna vivo in questi giorni un’avventura simile grazie all’incontro, nel mio peregrinare di lettore, con il "Meridiano" dedicato a Isaak Babel’. Dello scrittore russo (1894 - 1940) conoscevo i testi più noti ("L’armata a cavallo", i "Racconti di Odessa"): nella raccolta della Mondadori ho trovato altri racconti rimasti sparsi, testi teatrali, sceneggiature cinematografiche e articoli per giornali.
Ma non è tanto di Babel’ e della sua opera che vorrei parlare, quanto del doloroso strappo - una sensazione di freddo, di spenta insipienza - che provo passando dalle pagine del suo "Meridiano" a quelle che ogni giorno produciamo e consumiamo per raccontare l’attualità. Come può accadere che i testi di uno scrittore morto fucilato per ordine di Stalin più di 70 anni fa - resoconti dalle retrovie di un reparto cosacco passato ai bolscevichi, o della malavita ebrea di Odessa all’inizio del XX secolo -, testi passati chissà quanto indenni attraverso le insidie della traduzione dal russo, siano oggi più vivi, intensi, aderenti al reale e all’umano delle tante parole trasmesse in "diretta", dei video, delle foto, del chiacchiericcio globale che, senza sosta ma invano, si sforza di definire il presente?
Dai fumosi tormenti delle banche e della politica, ai dissestati panorami della cronaca, fino all’artificiale levità dei commenti di costume (nel leggerli, pare di sentire il tono querulo, un poco nasale, di una voce fatua quanto presuntuosa) è tutta cenere narrativa: non c’è più traccia né di verità né di consapevolezza. Di noi, e della nostra epoca di muta logorrea, ci sarà forse da dire soltanto che mai nessun analfabeta ha scritto tanto per dire niente.
Per mia fortuna vivo in questi giorni un’avventura simile grazie all’incontro, nel mio peregrinare di lettore, con il "Meridiano" dedicato a Isaak Babel’. Dello scrittore russo (1894 - 1940) conoscevo i testi più noti ("L’armata a cavallo", i "Racconti di Odessa"): nella raccolta della Mondadori ho trovato altri racconti rimasti sparsi, testi teatrali, sceneggiature cinematografiche e articoli per giornali.
Ma non è tanto di Babel’ e della sua opera che vorrei parlare, quanto del doloroso strappo - una sensazione di freddo, di spenta insipienza - che provo passando dalle pagine del suo "Meridiano" a quelle che ogni giorno produciamo e consumiamo per raccontare l’attualità. Come può accadere che i testi di uno scrittore morto fucilato per ordine di Stalin più di 70 anni fa - resoconti dalle retrovie di un reparto cosacco passato ai bolscevichi, o della malavita ebrea di Odessa all’inizio del XX secolo -, testi passati chissà quanto indenni attraverso le insidie della traduzione dal russo, siano oggi più vivi, intensi, aderenti al reale e all’umano delle tante parole trasmesse in "diretta", dei video, delle foto, del chiacchiericcio globale che, senza sosta ma invano, si sforza di definire il presente?
Dai fumosi tormenti delle banche e della politica, ai dissestati panorami della cronaca, fino all’artificiale levità dei commenti di costume (nel leggerli, pare di sentire il tono querulo, un poco nasale, di una voce fatua quanto presuntuosa) è tutta cenere narrativa: non c’è più traccia né di verità né di consapevolezza. Di noi, e della nostra epoca di muta logorrea, ci sarà forse da dire soltanto che mai nessun analfabeta ha scritto tanto per dire niente.
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