Sono stato bonariamente rimproverato perché la rubrica di ieri - “Niente festa” - dedicata alla mia personale impermeabilità alle giornate dedicate ai babbi, alle mamme e alle donne, era troppo intrisa d’inquietudine.
Accolgo la critica ma rilancio: quella di eri era una passeggiata nel parco rispetto a ciò che vi aspetta oggi. Dai fumi personali, infatti, qui si passa a quelli universali, dall’individuo depresso ci trasferiamo alle sciagure che gravano sulla collettività. L’impellenza del drammatico passaggio nasce dalla lettura di un paio di articoli nei quali, con il coraggio un po’ incosciente che si mette nelle previsioni a lunga gittata , qualcuno sostiene che «la civilizzazione industriale è avviata a un collasso irreversibile».
A dirlo è uno studio commissionato dalla Nasa, proprio quell’ente che di solito si occupa di missioni spaziali. Secondo i risultati della ricerca l’«irreversibile collasso» di cui sopra, nel quale incapperemo nei prossimi decenni, sarebbe dovuto «all’insostenibile sfruttamento delle risorse» e alla «crescente diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza».
Leggiamo: «Il surplus produttivo accumulato non è equamente distribuito nella società, ma piuttosto viene controllato da un’élite. La massa della popolazione, mentre produce tale ricchezza, ne dispone soltanto in parte, quella piccola porzione concessa dall’élite e che corrisponde al livello di sopravvivenza o poco di più».
A parte il fatto che parole di simile contenuto mi suonano familiari e non mi stupirebbe ritrovarle quasi identiche tra le righe di un barbuto filosofo tedesco, anche la conclusione catastrofica - “collasso”, “rivoluzione”, eccetera - mi sembra identica. Ci ritroviamo dunque di fronte a un conflitto vecchio come il mondo e a un imperativo ancora più antico: imparare a dare agli altri per salvare noi stessi. Ma al di là delle sinistre Cassandre, dovremmo praticare la generosità non tanto per evitare il “collasso” ma semplicemente - e mai concetto fu più semplice e terribile - perché è giusto.
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