Pezzi di carta

Un tempo lo si chiamava «pezzo di carta» ed era una cosa da «prendere» a tutti i costi. «Prendi un pezzo di carta e poi vediamo» dicevano i genitori. E aggiungevano: «Senza un pezzo di carta non vai da nessuna parte». Capitava che per certe fissità del bulbo, cateratte e accidenti oculistici vari, lo sguardo di chi pronunciava le sentenza puntasse verso il bagno, ed ecco che si innescavano curiosi equivoci.

Il concetto del «pezzo di carta», credo, ha più responsabilità nel disastro del sistema educativo italiano che una squadriglia di ministri per l’Istruzione.

«Pezzo di carta» era un’espressione che suggeriva disprezzo: gli adulti invitavano i ragazzi a impegnarsi non tanto per il valore intrinseco dello studio e della conoscenza, quanto per un risultato del tutto formale: quel «pezzo di carta», appunto, frutto burocratico dell’amministrazione statale, qualcosa che «quelli là» esigevano per darti un lavoro anche se,era sottinteso, di nessun valore concreto.

Non so se l’espressione «pezzo di carta», in epoca digitale, sia ancora in uso, ma il concetto che rappresenta certamente sì. Lo testimonia la notizia, riportata ieri nei giornali, delle centinaia di giovani italiani che si sono presentati a Tirana per iscriversi alla facoltà di Medicina di un’Università privata albanese.

Io non voglio giudicare la qualità delle Università albanesi - come potrei? - ma la qualità degli studenti italiani sì. Chi ha bussato alle porte di Tirana dopo essere stato respinto dalle facoltà italiane non insegue un’istruzione e neppure un diritto alla medesima privo di test d’ammissione: cerca invece il caro, vecchio «pezzo di carta» con il quale, domani, presentarsi nel mondo del lavoro perché tanto, come insegnavano gli adulti di una volta, «è quello che conta».

Che delusione quando scopriranno che, perfino nel nostro imperfettissimo sistema di impiego e produzione, ciò che conta è sapere, pensare, inventare e organizzare. Cose mai reperibili nei pezzi di carta, siano essi italiani o albanesi.

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