Sono passati più di 150 anni, eppure gli scienziati ancora non hanno finito di tormentare il povero Pinheas Gage.
Costui, un operaio americano addetto alla costruzione delle ferrovie, morì nel 1860 ma, per quanto drammatico, non fu questo l'evento più significativo della sua vita. Nel 1848 egli si trovò a transitare nei pressi di un'esplosione e una sbarra di ferro della lunghezza di un metro penetrò nella sua faccia, dal basso in alto sotto lo zigomo sinistro, fino a uscire alla sommità del cranio. Pinheas, incredibilmente, sopravvisse, anche se i medici notarono con sussiego come l'incidente ebbe a “modificare la sua personalità”. Non credo si possa biasimarlo, del resto, se specie negli istanti immediatamente successivi al fatto il suo umore conobbe un sensibile peggioramento.
Ciò che ancora lascia increduli è come, nonostante i vasti danni riportati al cervello, egli poté condurre una vita relativamente normale. Non solo, con il trascorrere del tempo sembrò recuperare alcune delle funzioni cerebrali perdute subito dopo il disastro.
L'ultimo esame della scatola cranica dell'uomo, conservata nel museo della Harvard Medical School, ancora non chiarisce il dubbio, anzi. Le ricostruzioni tridimensionali del trauma, realizzate al computer, stabiliscono che, semmai, l'operaio avrebbe dovuto lamentare conseguenze ben peggiori: cecità completa, tanto per incominciare, e seri disturbi alla parola. Nulla di tutto ciò accadde a Pinheas che, negli ultimi anni della sua vita, trovò impiego in Cile come conducente di carrozze lungo uno scomodo itinerario di oltre 160 chilometri.
Il suo viaggio, a ben vedere, continua ancora oggi: un'infinita tournée a dimostrazione che il cervello è quella strana cosa che, a volte, funziona quando non funziona e, altre volte, non funziona quando funziona.
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