Pioggia spietata

Piove acqua sulle nostre teste, piove fango nelle nostre scarpe, piovono palloni nella porta del Brasile. Per qualche ragione, queste giornate di luglio - fatta eccezione per pause comunque illusorie - sembrano segnate dalla pioggia.

La pioggia, per la maggior parte di noi, presenta più controindicazioni che benefici: intralcia le nostre attività all'aria aperta, inumidisce ciò che vorremmo asciutto, intristisce le anime sensibili e, quando esagera come in questo periodo, ingrossa i fiumi e combina danni molto seri.

L'unico rifugio, non dalla pioggia ma dai suoi effetti nefasti, è la letteratura. In essa, la pioggia fa ambiente. Al cinema, può addirittura esaltare il romanticismo di una scena: penso a “Colazione da Tiffany”, con il fradicio bacio finale cui fa da testimone un perplesso gatto color zenzero. Nei libri, la pioggia riesce a far anche di più. L'esempio per me magistrale lo fornisce William Somerset Maugham in un racconto intitolato, appunto, “Pioggia”. In esso, un missionario troppo rigido e un'ex prostituta troppo debole si fronteggiano fino al crollo e al dramma inevitabile: il suicidio di lui. L'azione, che si svolge in un'isola del Pacifico meridionale, è tutta incapsulata in una pioggia torrenziale che tormenta i personaggi impedendo loro di uscire da se stessi. Ma ecco come la vede uno dei protagonisti del racconto, il dottor Macphail, impotente testimone della prossima tragedia:

“Il dottor Macphail guardava la pioggia. Cominciava a dargli sui nervi. Non era la pioggerella inglese, che cade gentilmente sulla terra; era una pioggia spietata, in qualche modo terribile; ci sentivi la malignità delle forze primordiali della natura. Era un diluvio celeste, e batteva sul tetto di lamiera con un'insistenza esasperante. Sembrava animata da un'intima rabbia. E a volte ti veniva da urlare perché smettesse, e poi d'un tratto ti sentivi impotente, come se ti fossero d'improvviso ammollite le ossa, ed eri infelice e scoraggiato”.

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