Doveva succedere ed è successo. Il “selfie”, che non è solo una moda ma anche una cartina tornasole sociale e culturale, ha fatto la prima vittima. Non la prima vittima umana, perché incidenti tragici quanto grotteschi con esiti fatali sono già accaduti, ma la prima vittima artistica.
A Los Angeles, in una galleria che ospita una personale di Simon Birch, una giovane visitatrice nel contorcersi per fare quadrare in un selfie se stessa e le opere in esposizione, sistemate su decide di parallelepipedi accostati, ha provocato un catastrofico effetto-domino, mandando all’aria un’intera fila di piedistalli con relative opere e provocando un danno, così dicono i notiziari, «di circa duecentomila dollari».
A parte l’entità del danno - forse discutibile perché Birch non risulta poi essere così famoso e quotato - è il concetto stesso di “selfie” a uscirne a pezzi o, per meglio dire, in cocci. La giovane in questione aveva incominciato bene la giornata, prendendo la sempre saggia decisione di visitare una galleria d’arte. Perché poi ha rovinato tutto - letteralmente - decidendo di farsi un “selfie”? Forse perché lei, come tutti in fondo, non “sente” di aver fatto qualcosa se non può mostrarla agli amici reali e a quelli dei social. La sua sensibilità artistica non esiste se non c’è una foto che la documenta. Perfino la sua stessa esistenza è indimostrabile, a meno che un selfie la confermi. Finisce che lo smartphone è più “smart” di noi: lui non ha bisogno di un selfie per sapere di esistere.
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