Più stanchi che vili

E’ sorprendente notare come certe cose apparentemente fragili dimostrino nei fatti una resistenza eccezionale. Tra queste, vorrei qui indicare a esempio la poesia.

Sappiamo tutti che la poesia, quella grande, proprio fragile non è. Ci sono versi che hanno affrontato i secoli e potremmo addirittura dire che alcuni di questi versi i secoli li hanno modellati. Sottraiamo questa poesia alla storia dell’umanità e ci ritroveremo con una vicenda diversa, più arida e banale, perfino più crudele.

La fragilità della poesia, per come la intendo io, si rivela quando essa viene intesa quale prodotto. In un’epoca in cui i prodotti, per essere apprezzati, devono garantire connettività, interattività, velocità e qualsiasi altra cosa purché accentata, la poesia appartiene ancora al mondo, civilissimo ma un poco spaurito, delle edizioni a tiratura limitata e della carta pregiata color avorio. Un mondo che esiste ancora, beninteso, ma che è minacciato dalla fretta, dalla disattenzione; in generale, dalla scarsa compatibilità con l’universo che lo circonda.

Ancora più pericoloso di chi la ignora, è per la poesia chi se ne occupa troppo o con entusiasmo privo di saggezza. Ovvero, chi la tratta come fosse un diario intimo, un hobby economico, o addirittura un vanitoso campionario di sentimenti zuccherosi. La poesia non è niente del genere: affida la sua potenza, tremenda in sé ma inefficace senza le sensibilità che sanno diffonderla, a immagini brevi e affilate, intuizioni spontanee e tuttavia rifinite nei più minuscoli dettagli.

Come spesso accade, per parlarne non serve che l’esempio. Eccone uno, di Sandro Penna:

“Forse invecchio, se ho fatto un lungo viaggio

sempre seduto, se nulla ho veduto

fuor che la pioggia, se uno stanco raggio

di vita silenziosa... (gli operai

pigliavano e lasciavano il mio treno,

portavano da un borgo a un dolce lago

il loro sonno coi loro utensili).

Quando giunsi nel letto anch’io gridai:

uomini siamo, più stanchi che vili.”

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