Nella tristezza, diciamolo con un pizzico di malinconica ma profonda soddisfazione: siamo ancora esseri umani. Nessuno, davanti alla tragedia del terremoto, si è sentito estraneo al prossimo suo e se non ha avuto modo di dimostrare solidarietà con gesti concreti, lo ha fatto con le parole. Per strada e nei negozi ognuno si è sentito in dovere di aggiungere, a ciò che in altre ore sarebbe stato uno sbrigativo scambio di convenevoli, qualche sommessa frase per condividere il personale avvilimento.
Ancor più che per strada, la solidarietà si è espressa in Rete, in particolare sui social network. Naturalmente, davanti alla tastiera tutti diventiamo un po' autori e nell'occasione fruttifichiamo parole ricercate, oppure ci adoperiamo per raggiungere concetti poetici. In realtà, lo sforzo rivela la nostra indole: c'è chi è fatalista e chi ricorre alla polemica; qualcuno invita alla preghiera, altri ricordano l'importanza dell'azione sulle parole. Ho notato anche il tentativo di esprimere scandalo per gli idioti del “togliere i container ai clandestini e darli ai terremotati”: sforzo che mi pare ingeneroso, visto che gli idioti sono tali appunto perché dicono cose inopportune in momenti inopportuni. Se potessero evitare di farlo, non sarebbero idioti. Invece, lo sono.
C'è poi chi ha criticato i giornalisti per la goffaggine di certi inviati. Alcuni colleghi se la sono presa. Li capisco, ma credo che gli sfoghi vadano interpretati nel modo giusto: più che invettive contro la categoria, ho intravisto il moto spontaneo di chi esige il massimo rispetto per chi è stato colpito dal disastro.
Su tutto, in queste ore, mi torna un'espressione che ho incontrato mille e mille volte nei post e ho sentito pronunciare con identica frequenza per strada: “Povera gente”. Non avevo mai riflettuto sulla bellezza di questo costrutto così semplice e vero. “Povera gente”: una preghiera schietta, e l'umile constatazione che è la vulnerabilità dell'uomo a descrivere precisamente la sua natura.
© RIPRODUZIONE RISERVATA