Una bomba cade, distrugge uno o più edifici, sventra una strada, interrompe l’erogazione di energia elettrica e di acqua potabile, uccide alcune persone, altre ne ferisce, altre ancora le lascia senza riparo. Per fortuna, dopo tanto soffrire, viene la pace. Tempo di ricostruire, lenire le ferite, ricominciare a vivere e, nel riprendere a vivere, piano piano si fa strada anche l’idea di una possibile riconciliazione con il nemico.
Ma è proprio così che vanno le cose nella realtà? La risposta è no. Le cose non vanno affatto così. Certo, a un primo livello di interpretazione dei fatti sembra proprio che la guerra sia simile a una ferita che, con il tempo, si rimargina. Alla retorica bellica, tanto per incominciare, subentra quella della pace: ci sono cerimonie e dichiarazioni d’intenti, tagli di nastri, gemellaggi, strette di mano, fotografie, protocolli e intese diplomatiche. Tutto questo è bello e in qualche modo perfino utile, ma la verità che sta sul fondo è diversa e meno compiacente: una bomba che cade, ogni bomba che cade, fa danni nell’immediato e per generazioni a venire.
Ce lo ha ricorda Jonathan Freedland in un bell’articolo per il quotidiano britannico “The Guardian”.
Freedland racconta una storia di famiglia. Il 27 marzo del 1945 un razzo V2 lanciato dalla Germania colpisce un angolo di Whitechapel, quartiere dell’est londinese. È l’ultima V2 a schiantarsi nella capitale inglese: il regime nazista è ormai allo stremo delle forze e finirà per capitolare ufficialmente il 7 maggio successivo; Hitler è morto suicida poco più di una settimana prima.
Gli abitanti di Whitechapel però non lo sanno, e piangono i loro morti: 134 in tutto, tra cui - quasi un’atroce beffa - 120 ebrei. Tra loro c’è anche una donna di 33 anni, Freige Hocherman, che in un istante lascia orfani due bambini, un maschio di 10 anni e una femmina di 8, Sara. Quest’ultima diventerà la mamma del giornalista del Guardian.
Il lutto e il trauma profondo inflitto a quella bambina sono il tema centrale dell’articolo di Freedland che per tutta la sua vita è stato testimone dell’impossibilità, da parte di sua madre, di superare quell’evento. E qualcosa di quella ferita, di quella violenza fulminea e feroce, è rimasta anche in lui e continuerà a rimanere in lui.
Ecco perché una bomba - tutte le bombe: quelle tedesche sulla Gran Bretagna, quelle britanniche sulla Germania,e tutte le altre bombe scagliate nella storia dell’umanità - fanno danni più profondi di quanto ci riesca di immaginare. Ed ecco anche perché a ogni atto di aggressione che porta nel mondo nuove bombe e nuovi bombardamenti non si può rimanere indifferenti. Nelle parole di Freedland: «Se la guerra è un male, e lo è, un male ancora peggiore è un’aggressione malvagia che rimane impunita».
Non voglio, qui, aggiungere un’altra opinione maldigerita al dibattito pro e contro la fornitura di armi all’Ucraina: troppe ricette a tavolino abbiamo sentito e a troppi strateghi da torneo di Risiko ci è toccato dare ascolto. Però quel che dice Freedland dobbiamo ficcarcelo in testa: ogni bomba che cade crea danni nel tempo e non solo nello spazio e ogni criminale libero di lanciarle perpetua nella storia dolore, paura, incertezza. «Sono il figlio di una ragazzina impaurita - scrive Freedland - e sempre lo sarò».
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