Un’altra Festa della Repubblica che se ne va. E se non è passata inosservata, certamente non si è distinta per grandiose novità. C’è stata la cerimonia, ci sono stati i discorsi e soprattutto - ormai è tradizione, ma una tradizione “a latere”, come i datteri a Natale che non rimpiazzano ma si aggiungono al panettone -, c’è stato il fluire sui social di commenti beffardi, irridenti e in qualche caso scopertamente volgari contro la Repubblica medesima e tutto ciò che rappresenta.
Non ho intenzione, qui, di difendere lo Stato che, piaccia o no, collettivamente formiamo (tale è la natura fondamentale di uno Stato) e, anzi, vorrei ribadire che per me ogni opinione, specie la più aspra e sfavorevole, va rispettata. C’è stato anche chi ne ha approfittato per dar contro agli immigrati (ma non c’è argomento in cui, a patto di qualche spericolata distorsione, il partito anti-immigrati non si affacci), qualche volta con toni platealmente razzisti. Queste opinioni non le rispetto ma non desidero vengano cancellate: in ottemperanza, guarda un po’, con la Costituzione repubblicana.
Comprendere le ragioni di tanto malumore non è difficile. Viviamo circondati da pericoli veri e presunti, ci alimentiamo di nostalgia e timori per il futuro: in risposta a tutta questa ansia lo Stato parla una lingua astratta, carica di ipocrisia, di false promesse e non di rado apertamente irritante.
Ciò detto, dovremmo provare a fare un esercizio di onestà intellettuale e riconoscere che anche le nostre lamentele sono - qualche volta - pretestuose, cariche di malriuscito sarcasmo, grondanti malafede e ispirate dalla più sconsolante frustrazione. Sentendoci a torto o ragione emarginati, misconosciuti nei nostri meriti, inappagati nei nostri desideri (che a volte scambiamo per diritti) ce la prendiamo con ciò che vorrebbe far credere di unire e rappresentare. Tutto questo odio per la Festa della Repubblica italiana ci fa molto umani e un po’ ridicoli, del tutto passionali e poco affidabili. Insomma, ci fa tanto italiani.
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