Ricordo

Ricordo

Prima che il cielo si incrinasse in un precipitoso accumularsi di nuvole e il tuono allarmante prendesse a rotolare, l’estate mi aveva concesso una frazione di giornata che potrei dire di altri tempi.

Il cielo era azzurro e immobile, il caldo così totale, l’aria così greve di odori, il silenzio talmente ottuso che, per un momento, mi era sembrato di ritrovare lo stordimento estivo dell’infanzia. E siccome questi ritrovamenti sono come le ciliegie - ne tirano un altro, un altro e un altro ancora - in breve mi  sono trovato alle prese con un ricordo. Per meglio dire, mi sono trovato immerso in un ricordo: non una vicenda particolare, non un aneddoto o un fatto, piuttosto una situazione immobile, un quadro pigro come l’estate che lo componeva.

Il ricordo mi rivedeva ragazzo e, certo non a sorpresa, rimandato in matematica. Pur in villeggiatura, prendevo lezioni private. Ho ripensato alla penombra della casa dove, sotto vigilanza, finalmente mi impegnavo sugli esercizi che avevo schivato durante l’anno scolastico. La penna che scorreva sulla carta e l’odore del quaderno spalancato erano ingredienti invernali che male si adattavano al clima estivo: li ritrovavo in un contesto sbagliato e, diventati dolorosi, contribuivano alla punizione che meritavo.
Fuori, il silenzio dell’estate era un richiamo quasi insopportabile. Non c’era suono che potesse spiccare il volo in quella cappa densa di sole e calore che schiacciava il paese - a parte quello di un lontano cane che, insistente, abbaiava al nulla - ma io avrei giurato di sentire i tuffi e le grida, i richiami e gli scherzi di chi cercava refrigerio in un bagno al fiume.

Non era possibile che li sentissi, ma li sentivo, e, ripensandoci, ho riconosciuto in loro tutta la gioia e il dolore dell’estate: la promessa di una magia e, insieme, la sua negazione.

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