Nella scrittura, e in particolare nella scrittura a stampa, c’è ancora qualcosa di sacro e di autorevole e i libri di Federico Moccia sono soltanto una ragguardevole eccezione. Un gruppo di ricercatori ha deciso di arrivare alla fonte di questo istintivo rispetto che la parola stampata genera negli umani, pronti a bersi ogni parola di un romanzo, ad assaporare ogni fase di una biografia come fosse un distillato di saggezza e perfino ad obbedire, quasi sempre, ai cartelli distribuiti in ambienti e circostanze diverse: «Utilizzare il sottopassaggio», «Non buttare oggetti dal finestrino», «Lasciare libero il passaggio», «Vietato l’ingresso ai cani». La potenza della parola stampata è tale che in tempi remoti, io ragazzino tra i ragazzini, alla comparsa surrettizia di un cartello in cortile - «Vietato giocare al pallone» - mi ritrovai impedito a continuare nelle contese sportive, nonostante tutta la giovanile esuberanza e il desiderio di divertirmi.
Tornando ai ricercatori, se non hanno scoperto le ragioni di tanta autorevolezza della stampa, quanto meno ne hanno ben definito il potere: «Fin dal momento in cui un bambino impara a leggere - è la loro conclusione - attribuirà maggiore importanza a una raccomandazione scritta che a una orale».
«Verba volant, scripta manent» dicevano i latini, che avevano una massima per tutto, cosicché girare per strada doveva essere come passeggiare per il calendario di Frate Indovino. L’intuizione è più profonda di quanto appaia a prima vista: le parole scritte, in quanto tali, si suppone siano state in qualche modo “scelte”, abbiamo superato una selezione e diventino di diritto parole destinate a essere ”salvate”: poca differenza fa che siano stampate in un testo universitario o sul volantino di un salone per abbronzature artificiali. È questa un’intima convinzione che viene dalla natura dell’uomo e ne definisce la cultura. E così sarà sempre, nonostante ci sia in giro gente come me che, ogni giorno, riga dopo riga, si sforza di dimostrare il contrario.
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