Ieri mi è capitata una cosa digitalmente inquietante che vorrei, qui, condividere. Ho ricevuto una mail, generata in chissà quale computer in chissà quale parte del mondo, in cui mi si informava che io stesso, poco prima, avevo «cancellato un messaggio senza averlo letto».
Non contesto l’accusa nel merito - effettivamente poco prima avevo cestinato una mail senza “aprirla” - ma contesto l’accusa in quanto tale: la mail eliminata non aveva per me nessun interesse a incominciare dal soggetto, non era stata da me in alcun modo sollecitata ed essendo parcheggiata nella mia personale casella di “posta in arrivo” era soggetta in modo assoluto alla mia volontà. Dunque, perché quel messaggio, sottilmente inquisitorio nonostante il tono all’apparenza distaccato e oggettivo? Soprattutto, perché incominciavo a sentirmi blandamente in colpa e a covare il timore, peraltro giustificato, che copia della mail, oltre che al sottoscritto, fosse stata inviata anche al mittente il quale, ora, certamente stava coprendomi di insulti per la mia insensibilità e la mia maleducazione?
Insomma, la mail di cui sopra innescava un meccanismo psicologico perverso di cui mi sento responsabile in larga parte ma non precisamente al cento per cento. Incomincio a capire - sarà forse l’età - l’indignazione dei nostri bisononni e trisnonni davanti all’incedere della tecnologia, quando il trillo del telefono appena installato in salotto sembrava loro un’intollerabile ingerenza. Lo era: qualcuno, a chilometri di distanza, poteva comporre un numero e irrompere, senza invito e senza preavviso, nella giornata di qualcun altro, il che, senza dubbio, è come dire che poteva pasticciare a piacimento con il tempo e addirittura la libertà altrui.
Negli anni alla tecnologia abbiamo sempre più concesso ritagli di riservatezza, metri quadri di intimità e appezzamenti di autonomia. In cambio abbiamo ottenuto tante comodità, ma non si dica che non c’è stata alcuna vitale rinuncia.
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