Non fatevi ingannare da chi dice il contrario. Il risultato è quello che conta. A essere precisi, il risultato è l’unica cosa alla quale prestiamo attenzione, l’unica cui affidiamo un valore: economico, sentimentale, culturale. L’unica ragione per la quale siamo disposti a concedere il nostro tempo.
Viviamo immersi tra i risultati. Guardiamo la tv e vediamo un programma, ovvero il risultato degli sforzi profusi da tecnici e artisti per allestire un velo di apparenza che, solo, si presenta davanti ai nostri occhi. Stessa cosa se andiamo a teatro o al cinema.
Non parliamo delle Olimpiadi: con tutta la promessa di incertezza dispiegata lì, dal vivo, davanti ai nostri occhi, ciò che vediamo è il risultato della fatica e dell’impegno degli atleti, non la fatica e l’impegno in sé stessi. Per correre i 100 e i 200 metri come li ha corsi, Usain Bolt di metri ne ha macinati migliaia, decine di migliaia (ci sono atleti che per andare più forte arrivano fino in Turchia): ma noi vediamo al massimo gli ultimi tre-quattrocento, e nella mente fissiamo gli ultimi cento e duecento. Il risultato, appunto.
Anche quando leggete queste righe, in tutta la loro modestia, vedete un risultato: esitazioni, cancellature, ripensamenti sono stati eliminati, depurati, accantonati. Il fatto è che noi ci aspettiamo sia così: dal banco del supermercato fino al romanzo d’autore, pretendiamo di ritirare solo e soltanto il risultato. Poco male quando si tratta di questa rubrica (davvero non vi siete persi molto, non potendo assistere alla sua stesura), molto male quando si tratta di altri, più elevati, processi creativi. Eppure, è solo il risultato a contare. Al punto che chiunque, oggi, anche potendo assistere allo spettacolo di Picasso che dipinge, probabilmente vi rinuncerebbe: «Senta, maestro, io mi faccio un giro. Torno quando ha finito».
Viviamo immersi tra i risultati. Guardiamo la tv e vediamo un programma, ovvero il risultato degli sforzi profusi da tecnici e artisti per allestire un velo di apparenza che, solo, si presenta davanti ai nostri occhi. Stessa cosa se andiamo a teatro o al cinema.
Non parliamo delle Olimpiadi: con tutta la promessa di incertezza dispiegata lì, dal vivo, davanti ai nostri occhi, ciò che vediamo è il risultato della fatica e dell’impegno degli atleti, non la fatica e l’impegno in sé stessi. Per correre i 100 e i 200 metri come li ha corsi, Usain Bolt di metri ne ha macinati migliaia, decine di migliaia (ci sono atleti che per andare più forte arrivano fino in Turchia): ma noi vediamo al massimo gli ultimi tre-quattrocento, e nella mente fissiamo gli ultimi cento e duecento. Il risultato, appunto.
Anche quando leggete queste righe, in tutta la loro modestia, vedete un risultato: esitazioni, cancellature, ripensamenti sono stati eliminati, depurati, accantonati. Il fatto è che noi ci aspettiamo sia così: dal banco del supermercato fino al romanzo d’autore, pretendiamo di ritirare solo e soltanto il risultato. Poco male quando si tratta di questa rubrica (davvero non vi siete persi molto, non potendo assistere alla sua stesura), molto male quando si tratta di altri, più elevati, processi creativi. Eppure, è solo il risultato a contare. Al punto che chiunque, oggi, anche potendo assistere allo spettacolo di Picasso che dipinge, probabilmente vi rinuncerebbe: «Senta, maestro, io mi faccio un giro. Torno quando ha finito».
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