In un editoriale nel Corriere della Sera Paolo Mieli ha raccontato l’assurda disavventura giudiziaria della virologa Ilaria Capua che si è ritrovata sulla testa l’accusa di aver posto, nientedimeno, «le condizioni per un’epidemia». Trattavasi invece di una ricerca su un virus che non solo non ha ammazzato nessuno in Italia, ma che neanche in Pakistan, dove è stato isolato, ha infettato anima viva. Siccome non è bello vedersi imputati per un reato che prevede l’ergastolo, la dottoressa Capua ha deciso di lasciare l’Italia per una cattedra negli Stati Uniti. Storia emblematica, commenta Mieli, di un Paese che sta creando una nuova classe di emigranti scientifici perché « disprezza il rigore della ricerca».
È una frase, quest’ultima, che ha il suono solenne di una sentenza: ci condanna, in blocco, all’anarchia mentale. Rifiutando la scienza, respingiamo ciò che è logico, razionale, accertato e, insieme, disconosciamo un metodo, quello della ricerca passo per passo, prova per prova, che richiede al contempo applicazione e umiltà.
Ma è proprio così? Gli italiani meritano un giudizio tanto severo? Se immaginiamo l’Italia come una scolaresca, dovremmo ammettere che essa inclina più verso le maniere umanistiche. Se poi riconosciamo anche che non si tratta di un’ottima scolaresca, ma pullula invece di elementi irrequieti, fieri di un’ignoranza scambiata per indipendenza di pensiero, non c’è dubbio che la scienza finisca in un angolo, abbandonata e, semmai, derisa per la sua ostinazione a sostenere che due più due fa sempre quattro e non tre «senza scontrino».
Eppure ci sono stati e ci sono grandi scienziati italiani. Ma come sentire la loro voce in questa cacofonia di lingue slogate che convinte di fare analisi trascendono nel delirio, pensando di convincere commettono prepotenze e, nel nome dell’eloquenza, sguazzano nell’insulto? Impossibile. Ci vorrebbe un miracolo. O, ancora più incomprensibile, da noi, una scoperta scientifica.
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