Potrebbe essere un’impressione sbagliata - d’estate, sarà il caldo, non faccio altro che avere impressioni sbagliate - ma in questa stagione sembra sbocciare e arrivare a rapida maturazione una messe di scuole dedicate alla scrittura creativa.
Non ho elementi per attaccare o, al contrario, difendere le scuole (o i corsi) di scrittura: vorrei solo sottolineare che, mentre da oltre quarant’anni ho a che fare con la scrittura, raramente mi sono ritrovato a pensarla come prodotto di un procedimento scolastico.
Perfino ai tempi della scuola la scrittura era per me un qualcosa di estraneo a banchi e professori. Al contrario, la vedevo più volentieri nei panni di supereroe: al momento opportuno, ovvero quando il sottoscritto era alle prese con voti sgangherati in storia e geografia, nonché nell’italiano orale, essa interveniva e, per magia, rialzava una media altrimenti destinata ad affondare come il Titanic.
Forse è questa concezione della scrittura come spiritello libero, magari un poco ribelle, certamente diseducato - non nel senso di ignorante ma di refrattario alla disciplina - ad avermi reso, se non sospettoso, certo indifferente a ogni proposta di applicare la didattica alla scrittura, meno che meno alla scrittura creativa. E forse è questa stessa concezione a rendermi insicuro di quello che scrivo: ansioso durante la stesura, insofferente nella correzione, incapace di rileggermi una volta che lo scritto è pubblicato. Ma anche sempre disponibile a riprovarci, desideroso di inseguire un pensiero, il filo di un’idea, senza che nessuna ragione “scolastica” possa impedirmelo sulla base di regole, consuetudini, opportunismi.
Solo molto tardi l’incontro con Sergio Ferrero ha portato la mia scrittura al confronto con una “scuola”: quella dell’onestà e dell’eleganza, due qualità che, curiosamente, accompagnano sempre il vero talento. Il risultato è questo. Bello o brutto che sia, finalmente mi rappresenta. Alla mia età, credetemi, basta e avanza.
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