Ogni giorno guardo il cielo e se c’è il sole gioisco. Non è soltanto una questione sensoriale per quanto, come tutti, ami il calore di una bella giornata e mi senta rallegrato dalla luce limpida che, come dalle volte di un’immensa cattedrale, discende su di me benefica e benedicente. E’ anche una faccenda molto pratica: se c’è il sole vuol dire che non piove e se non piove è meno probabile che la terra mi frani sotto i piedi. Eventualità che, nel Paese in cui viviamo, è tutt’altro che trascurabile: chiamo a testimoni le cronache in arrivo in queste ore dalle Marche.
Ci sono infinite possibilità di circoscrivere le responsabilità umane per quanto accaduto ieri a Senigallia e, nel passato recente, in altre zone d’Italia. Quasi sempre si invoca “l’eccezionalità” delle precipitazioni, si accusa il “cambiamento del clima” e, su tutto, si cala il coperchio della “fatalità”. Nessuno di questi ingredienti è probabilmente estraneo ai disastri ma, a giudicare dalla frequenza dei medesimi, dalla loro diffusione e dalle tipologie dei dissesti, prima o poi bisognerà avere l’onestà di ammettere che, tra le cause del problema, ci siamo anche noi. Noi, intendo, in quanto uomini prima e cittadini italiani poi.
Passeggiando tra città e paesi, per colline e pianure, rive e argini, depressioni e rilievi, è difficile non osservare come la parte pubblica, comune, sia del tutto trascurata a favore di quella privata, personale, circoscritta e circoscrivibile. Giardinetti curatissimi si affacciano su strade dall’asfalto grattugiato, cortili nel quali “giocare al pallone” è reato equiparato all’associazione a delinquere godono, si fa per dire, della vista su boscaglia arruffata e sporca, irreprensibili aiole di ortensie e zinnie segnano il confine con carrozzabili punteggiate da tombini che, al primo accenno di pioggia, ributtano l’anima di liquami fangosi.
Vorrà dire che allo spettacolo della natura che si porta via il paesaggio assisteremo dalla linda cornice di una finestra. Finché avremo una finestra.
© RIPRODUZIONE RISERVATA