A quanto pare quello degli auguri non è più un rito sufficiente. E non solo perché sia logoro, stanco e perfino un poco insensato (è tutte queste cose e anche altre) ma perché è superato dal “messaggio”. Francamente, se non avete pensato a rivolgere alla Nazione un “messaggio di fine anno” (o “di inizio anno”, se preferite), non siete nessuno, ed essere nessuno, si capisce, non è più contemplato in questa epoca in cui gli ego vengono fabbricati in Cina e poi installati, previa insufflazione, qui da noi, in modo da guadagnarsi la prestigiosa etichetta di “made in Italy”.
Un tempo il privilegio di lanciare messaggi alla Nazione era riservato al presidente della Repubblica e la cosa sembrava avere un senso: egli, si sa, «rappresenta l’unità nazionale» e dunque, ci stia simpatico o no, è specifico del suo ruolo il compito di farsi vivo almeno una volta all’anno per condividere qualche impressione sullo stato del Paese.
Lo hanno fatto tutti i presidenti e lo ha fatto anche Mattarella, e se gli è mancato qualcosa del ritmo di un Fedez o di un J-Ax, mi pare si possa dire che si è fatto onore. Dietro di lui, però, si sono accodati altri personaggi che, così a occhio, pur avendo tutti i diritti di dire la loro - a fine anno come all’inizio, a tre quarti come a metà - non mi sembra abbiano i requisiti necessari ad accedere allo stesso piedistallo.
Eppure, da una rapida indagine, risulta che “messaggi” siano stati rivolti agli italiani da parte di Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Giorgia Meloni, ma sono sicuro che, a cercar meglio, se ne troverebbero anche di esponenti politici diversi e alternativi a questi tre.
Il problema è che il “messaggio”, così come tradizionalmente concepito e collocato in questo preciso momento di transizione cronologica, ha senso se proveniente da un’autorità che richiama, appunto, alla condivisione: un’autorità, in altre parole, istituzionale. I personaggi di cui sopra, e gli altri che eventualmente ne hanno seguito l’esempio, non hanno questo ruolo: sono leader di partito, figure importanti nel “gioco” democratico, ma per nulla unificanti. Al contrario, loro preciso impegno è quello di esercitare spinte centripete, divisive, in quell’esercizio di equilibrio tra forze opposte che dovrebbe mantenere il Paese in un habitat fatto di pluralismo e libertà d’espressione.
Discorsi, dunque, ne possono fare a bizzeffe, post su Facebook pure e tweet prego si accomodino, ma “messaggi” proprio no. Tale pretesa denuncia infatti una tendenza a sopravvalutare il proprio ruolo, tendenza che, nel caso dei personaggi citati - e anche in molti altri -, non è certo difficile da constatare e tradisce l’inclinazione a rivolgersi ai propri seguaci come fossero una Nazione interna alla Nazione, ovvero una sotto-nazione in attesa di prevalere o schierata per evitare a tutti i costi che altre sotto-nazioni prevalgano. Il “messaggio” istituzionale avrebbe invece lo scopo opposto: ricordarci che al netto delle differenze di opinione - sacrosante - siamo tutti cittadini dello stesso Paese, con eguali diritti ed eguali doveri. Dopo di che, il “messaggio” può incontrare il nostro favore o la nostra critica, ma almeno non se ne equivochi la natura, e non ci si lasci confondere le idee dagli usurpatori di una tribuna che, per una volta, si vorrebbe di tutti.
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